Gli anni Settanta ci hanno lasciato meravigliosi esempi di cinema anarchico in cui la strada rappresentava la fuga dal sistema, la corsa verso la libertà, la sovversione e la rivolta. Tanti, dal Peckinpah di Getaway e Convoy al Serafian di Punto zero, Strada a doppia corsia di Monte Hellman, addirittura Steven Spielberg con Sugarland Express, e a suo modo naturalmente Un mercoledì da leoni, in cui all’asfalto si sostituivano le onde dell’oceano.
Quattro ruote, un motore rombante, la vita vissuta un quarto di miglio alla volta, quando nell’ormai lontano 2001 arrivò sugli schermi The Fast and the Furious fu facile etichettarlo come una versione metallo veloce del capolavoro di John Milius, come in fondo lo era per molti versi Point Break di Kathryn Bigelow.
Dodici anni dopo, Dom Toretto è ancora sulla strada, non più quelle della California, ma di tutto il mondo, a capo di un team di specialisti reclutati nei cinque continenti che dopo essersi sistemati per benino con un colpo straordinario in Brasile nel quinto episodio della saga, si mettono al servizio della legge per catturare un pericoloso criminale. Ovviamente a tutta velocità.
Si dovrebbero scrivere fior di trattati sul franchise di Fast and Furious, arrivato al sesto capitolo e con un settimo già in cantiere, inizio assai probabile di una terza trilogia. Un successo straordinario, dovuto a una ricetta semplicissima: personaggi ben tratteggiati, valori forti come l’amicizia, l’amore e la famiglia, tanta azione di eccezionale livello, macchine e belle donne. Forse Harmony Korine e le sue Spring Breakers sono una rappresentazione più veritiera della gioventù americana contemporanea, ma la parte sana è quella che ama il ribelle Toretto, che si sporca mani e bicipiti di grasso come farebbe il protagonista di una canzone del Boss. La Thunder Road della banda Fast and Furious li ha portati nel corso degli anni in Messico, Giappone, Brasile, Spagna e Regno Unito, nella migliore tradizione di James Bond, guarda caso, smargiassi quanto lui, molto meno eleganti, con la tequila al posto del Vodka Martini, ma lo stesso effetto sul pubblico. Perché Bond come Dom incarna il desiderio di ribellione ma allo stesso la necessità di avere qualcosa in cui credere, che si tratti dell’Union Jack o di un V8 in linea.
Fast and Furious 6 è certamente l’episodio più spettacolare della serie, con un finale pirotecnico, una serie di colpi di scena tra la soap opera e il melò classico, fino all’immancabile preludio al numero sette durante i titoli di coda. Il cast è sempre bello e divertente e c’è una maggiore attenzione ai personaggi di contorno, in particolare le coppie Ludacris/Tyrese Gibbons e Sung Chang/Gal Gadot, così come è ottima la scelta di Luke Evans nel ruolo del villain, diventato importante quanto l’Ernst Stavro Blofeld di turno.
Fracassone e assurdo, FF6 è uno di quei film che si amerebbe definire “guilty pleasure”, come se fosse un peccato godere della vista di una bella ragazza, dell’adrenalina di una corsa in macchina e del divertimento di una banda a cui, dopo dodici anni di scorribande, sogni di appartenere, condividendo con loro l’odore delle gomme bruciate e il rombo del motore quando attivi il booster.
Negli anni Settanta Wyatt e Bill venivano spinti fuori strada a colpi di fucile, oggi farebbero parte della famiglia Toretto, volendo anche un po’ borghese con il barbecue, gli hamburger e gli hot dog. Che però sono tanti buoni, se accompagnati da una bella birra gelata e i tuoi migliori amici.
Alessandro De Simone