Arriva il momento, per ciascuno di noi, ma ancor più per un critico, in cui bisogna scindere il gusto personale da quanto è oggettivamente di fronte ai nostri occhi. Arriva qualcosa per cui le categorie “bello” e “brutto” o le espressioni “mi piace” e “non mi piace” sono estremamente limitanti. Grazie al cielo. Questo qualcosa si chiama arte, e anche se per molti sarà ozioso al giorno d’oggi, è qualcosa che non si lascia incasellare, che sfugge al diametralmente opposto, che avrà sempre qualcosa da dire.
Dopo il successo de La grande bellezza, Paolo Sorrentino non cambia la sua formula vincente e realizza un altro affresco senile, contemplativo, che riempie gli occhi di bellezze (questa volta le Alpi Svizzere) talmente scontate come tali che nessuno di noi si sofferma più a guardarle. E lo fa ancora in modo meravigliosamente bello, e insieme cristallizzato e asettico.
In Youth non c’è la potenza di un personaggio iconico come Jep Gambardella
Chi racconta si sdoppia e si triplica, spezza il suo sé in tre personaggi protagonisti, anche loro – come Jep – avulsi dal mondo dei comuni mortali in un centro benessere extralusso. C’è il regista che non riesce a lasciare il suo testamento artistico, incastrato com’è sulla battuta finale (come non vedere lo spettro di un Natale futuro?), c’è l’artista osannato e in parte incompreso, che ha ormai visto e vissuto tutto, e per questo ha lo sguardo stanco e gonfio di apatia (e la contemplazione non reattiva si fa palese immedesimazione), e c’è un giovane interprete che sogna di portare in scena un personaggio storico odiato da tutti, ma senza giudicarlo, dandone piuttosto una visione interiorizzata (e non è esattamente ciò che fece Sorrentino con Il divo?). Persino la parte di anima femminile, fragile e sbraitante nel momento meno credibile, malcela Sorrentino dietro il volto di Rachel Weisz: quel gridare “Sono brava anche io!” di cui ogni giovane artista ha sentito il bisogno.
E mentre intorno tutto si muove lentamente, ridondante di elementi e personaggi che appena si vedono, tutto è vecchio, anche i giovani. Solo la massaggiatrice sfugge a questa stanca senilità, inaspettatamente sensuale. Il barocchismo e la verbosità appesantiscono, nelle inquadrature composte e nelle ombre pesanti (nonostante il Sorrentino pre-Oscar, quello fresco e innovativo, faccia capolino ogni tanto), nei personaggi-comparsa che finiscono per essere uno dei tanti intarsi dalla pregevole fattura, ma che inevitabilmente passano inosservati in mezzo a tanta ridondanza, negli innumerevoli finali. E lo stacco è inevitabilmente l’omaggio a Maradona, nella fase più melanconica della sua vita. Ma i santi laici, con tutte le loro contraddizioni, non si discutono, si ringraziano solo di Essere, per il bene che hanno fatto e che faranno, persino loro malgrado.
Viene da chiedersi: se Sorrentino non avesse a disposizione i Michael Caine, gli Harvey Keitel e i Paul Dano (sempre più in grado di fiancheggiare mostri sacri), se non avesse le scene madri con Jane Fonda e finanche le gigionerie stupende dei Toni Servillo, i suoi film cosa sarebbero? Le stesse battute, pronunciate da altri e ascoltate da occhi diversi da quelli di Caine, sarebbero banali?
No. La sua scrittura resterebbe ripetitiva, prolissa, a tratti poco comprensibile, ma mai banale. Le scene, lo stile, la regia, continuerebbero comunque a punteggiare di novità, a far progredite il linguaggio con una grammatica precisa e nuova, unica per l’Italia. Vecchio forse, ma comunque un passo avanti.