Nel 1973 il giovane John Paul Getty III, nipote del magnate del petrolio Jean Paul Getty, l’uomo più ricco del mondo e anche il più avido, fu rapito. Il riscatto fu fissato a diciassette milioni di dollari. Un’inezia per il facoltoso nonno, che però dichiarò di non voler pagare. Solo dopo mesi, e dopo aver ricevuto l’orecchio reciso di suo nipote, il vecchio si decise a pagare ai rapitori il risultato della trattativa: quattro milioni. Ma questa non è la storia pedissequa di quel rapimento.
La famiglia Getty ha disconosciuto lo script del nuovo film di Ridley Scott come Stephen King fece con lo Shining di Kubrick. Il paragone è forte, ma rende l’idea: la sceneggiatura non rispetta appieno la storia, è romanzata, è piegata alle esigenze narrative degli sceneggiatori, che volevano parlare di tutt’altro che di un adolescente rapito. I soldi, Tutti i soldi del mondo, sono l’oggetto d’interesse di questa analisi fredda, lucida, tendente all’asettico.
Del film si è parlato molto e per altri motivi: Kevin Spacey, invecchiato da make-up prostatico, interpretava Getty. Dopo le accuse di molestie sessuali, Ridley Scott e la produzione hanno deciso di girare in tempi record tutte le sue scene, sostituendolo con il premio Oscar Christopher Plummer. Un’operazione ben più dispendiosa dell’eliminare un nome dalla locandina. E se da un lato resta la curiosità di vedere com’era l’interpretazione di Spacey, troviamo ora un Plummer coriaceo, inossidabile, perfetto per un regista come Scott, che quando il suo attore di punta pronuncia una battuta epica, deve percorrere con la macchina da presa il suo primo piano.
Tratto dall’omonimo libro di John Pearson e sceneggiato da David Scarpa, il film è un lungo racconto statico e generatore di ansia, e non è banale dare dinamismo ad azioni statiche e a tre o quattro ambientazioni. Una madre che compie il solo gesto di alzare il telefono per parlare con i rapitori di suo figlio, un ragazzo chiuso in posti fetidi, a cui non è concesso nemmeno lavarsi, un vecchio che se ne sta trincerato tra le sue ricchezze e non fa una piega. Eppure, nonostante il ritmo lento e la lunghezza oltre le due ore, la suspence resta alta per tutto il tempo, incollando lo spettatore alla poltrona, con gli occhi sgranati su una fotografia virata ai colori mattone e terracotta, che quasi fa sentire l’aridità in bocca.
Michelle Williams è all’ennesima prova che conferma il suo talento per ruoli drammatici, e Romain Duris è capace di salvare dai cliché il suo personaggio Cinquanta. Cliché che sono disseminati ovunque: dal Colosseo appena arriviamo a Roma, alla caratterizzazione dell’Italia, con troppe Vespa e Fiat 500 e battute semplicistiche come “calabresi teste dure”. Gli americani ci vedono così, e Scott prende la scorciatoia per l’ambientazione luogo-temporale, tanto che in molti non gli stanno perdonando il ridicolo covo delle Brigate Rosse.
Eppure la Roma che vediamo non è mai da cartolina; semmai è l’ossessione di un vecchio che resta povero dentro, perché è lo Scrooge del Canto di Natale come sarebbe nella realtà, incapace di trovare un valore oltre quello dei soldi. E a volersi fissare sulle inezie, si rischia di perdere la metafora, che invece è schiaffeggiata sugli spettatori. Getty e le mafie. Due imperi, come potevano essere allora USA e URSS, come potrebbero essere oggi USA e Islam, USA e Nord Corea. Nessuno cede, in mezzo la gente muore. Chiaro e semplice. Come nel botta e risposta chiave: “Di quanti soldi ha bisogno per sentirsi al sicuro?”. “Di più”.