Sette. L’alba del pianeta delle scimmie è la settima installazione cinematografica ispirata al romanzo di Pierre Boulle che narra le vicende di una Terra futura dominata da scimmie intelligenti che usano gli umani come forza lavoro. La prima versione è del 1968, diretta da Franklin J. Schaffner e interpretata da Charlton Heston, a cui fanno seguito ben quattro sequel che vanno a formare una pentalogia chiusasi nel 1973 e che ha avuto un’appendice televisiva con due miniserie nel 1975 nel 1981.
Franchise fortunatissima, che ha avuto poi una vita in formato digitale casalingo di assoluto rispetto, non poteva non essere che sfruttata nuovamente dalla Twentieth Century Fox che nel 2001 cerca di farla ripartire in grande stile affidando a Tim Burton un remake del film originale che sarebbe dovuto essere un preludio a una nuova serie di lungometraggi.
Purtroppo questo tentativo fallisce, nonostante i trecentosessantadue milioni di dollari incassati worldwide, a causa di una difficile integrazione tra la poetica del regista di Edward Mani di Forbice e lo spirito della saga, più che del romanzo, a cui Burton si era appoggiato in maniera importante in fase di sceneggiatura, la cui prima stesura era opera di Kevin Smith, origine questa dell’acredine mai sopita tra i due.
Il quasi disastro di questa operazione sembrava avere messo la parola fine alle ulteriori possibilità di sfruttamento degli scimpanzè intelligenti, finchè la coppia Rick Jaffa e Amanda Silver, coniugi scrittori e produttori di buon talento, non hanno sviluppato un quasi reboot posizionato nei pressi del terzo capitolo della saga, Fuga dal pianeta delle scimmie, che segnava il ritorno sulla Terra contemporanea dei primati evoluti con tutte le implicazioni politiche e sociali conseguenti.
Non un remake, ma una storia tutta nuova
Il cui susseguirsi di eventi porterà al momento in cui tre astronauti atterreranno sul loro stesso pianeta trovandosi braccati dai gorilla a cavallo. Qui tutto comincia in Africa, dove un cospicuo numero di scimpanzè viene catturato da bracconieri che rivendono il prezioso carico a un centro ricerche farmaceutico di San Francisco, dove vengono utilizzati dal giovane professor Will Rodman per sperimentare una cura per l’Alzhameir, malattia di cui soffre anche suo padre.
Una delle cavie sviluppa capacità intellettive fuori dal comune grazie al farmaco, lasciandole in eredità dopo la tragica morte al suo piccolo, che Will decide di adottare per tenere compagnia al genitore. Cesare, questo il nome del giovane scimmiotto, dimostra subito di avere un’intelligenza brillante che lo porterà ad assumere coscienza di sè, della sua posizione nel mondo e dell’inadeguatezza di una razza destinata all’estinzione. Quella umana…
Un’operazione tutt’altro che facile
che mette sul tavolo una quantità di temi complessi e delicati, dalla bioetica all’evoluzionismo, passando per l’integrazione, la sperequazione sociale e addirittura l’eutanasia. Una bomba a orologeria di cui non c’era certezza di disinnesco nelle mani di un regista esperto, vista la traumatica esperienza vissuta meno di dieci anni fa.
Tra i molti presi in considerazione, tra cui Tomas Alfredson, i fratelli Hughes e addirittura Kathryne Bigelow, è spuntato fuori Rupert Wyatt, regista britannico con un paio di piccoli film indipendenti all’attivo che ha convinto la major grazie a un promo reel con cui spiegava, attraverso un montaggio di scene tratte da opere più o meno famose della storia del cinema, quale doveva essere a suo parere l’impostazione da dare a L’alba del pianeta del scimmie.
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Dopo una gestazione difficile, però, arriva un successo inaspettato, con un primo week end da cinquantaquattro milioni di dollari solo negli Stati Uniti, oltre ogni più rosea previsione, e critiche unanimemente positive. E a ragione, perché Wyatt è riuscito nella difficilissima impresa di equilibrare una sceneggiatura complessa con un impianto visivo asciutto e dalle atmosfere perfette, il tutto sorretto da due elementi imprescindibili: gli effetti speciali della Weta e l’incredibile interpretazione di Andy Serkis nei panni di Cesare, vero protagonista del film a cui fanno da comprimari James Franco, Freida Pinto, John Lithgow, Brian Cox e Tom Felton.
“L’obiettivo che ci eravamo posti” ha dichiarato a The Cinema Show Dan Lemmon, supervisore degli effetti digitali del film “era di rendere il film il più possibile realista, così da supportare e aumentare il livello di coinvolgimento degli spettatori”. Un lavoro complessivo durato circa un anno e mezzo di ricerche sul campo, studiando minuziosamente tutte le caratteristiche fisiche e motorie degli animali per poterle poi implementare, grazie allo sviluppo di nuovi software che hanno migliorato molti elementi complicati, come il pelo, le pieghe delle mani, la luminosità degli occhi, sulla performance capture di Mr. Gollum.
“Quello che molti ancora non comprendono” ci ha raccontato l’attore inglese, visto recentemente in carne e ossa in Burke and Hare di John Landis “è che io non presto semplicemente la voce quando recito con la performance capture. Semplicemente recito, come ho fatto nella Trilogia dell’Anello, in King Kong e prossimamente in TinTin e ne Lo Hobbit. Quello che poi si vede sul grande schermo è un make up digitale, senza le limitazioni che hanno le protesi in lattice e il trucco convenzionale, che diminuiscono notevolmente l’espressività. Con la performing capture, invece, ogni movimento dei muscoli facciali viene riportato fedelmente allo spettatore. L’importante è che l’attore si fidi della tecnologia, cosa che pochi fanno”.
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Una confidenza che proprio Serkis trasmetterà prossimamente grazie alla scuola di performing capture acting che sta per aprire a Londra all’interno della sua factory di produzione e sviluppo, The Imaginarium.
Pensare che L’alba del pianeta delle scimmie sia solo un altro blockbuster costruito al computer sarebbe un grosso errore.
Al contrario, lo sviluppo del racconto è drammaticamente attuale, raccontando di una società moralmente e socialmente in disgregazione, in cui individualismo, profitto, ambizione hanno ormai preso il sopravvento nei confronti di una dimensione basilare che preveda, una volta soddisfatti i bisogni primari, la pulsione naturale della ricerca della felicità.
Cesare è destinato ad attraversare il Rubicone con il suo esercito, mentre gli uomini hanno segnato il loro stesso destino.
Speriamo sia davvero così.