Si parla sempre della mancanza nella produzione di un prodotto che unisca una buona confezione a una vocazione spiccatamente commerciale. Non la millesima commedia a tutti i costi, quella che sembra essere l’unica strada per evitare il fallimento di tutto il sistema cinema italiano ormai da tempo immemore. Per intenderci, parliamo di quelle commedie, un po’ sentimentali, un po’ drammatiche, un po’ sociali, che permettono al cinema francese, e soprattutto a quello americano, di essere industrie nel vero senso della parola. Film che sbigliettano alla grande e che rientrano in quella categoria del “gradevole” nella quale non è un disonore essere catalogati.
Quanto basta ci rientra perfettamente. Un cuoco con problemi di gestione della rabbia deve passare un periodo ai servizi sociali, dove scopre un fenomenale giovane talento della cucina, affetto dalla sindrome di Asperger. Lo aiuterà a coronare il sogno di diventare chef, in cambio avrà in regalo una seconda occasione.
Scritto con equilibrio anglosassone, diretto con ritmo e misura da Francesco Falaschi, decisamente alla sua migliore prova dietro la macchina da presa, Quanto basta ha la sua marcia in più nel cast, a partire da un eccellente Vinicio Marchioni, attore che dovrebbe fare più incursioni nella commedia, genere in cui ha tempi e fisicità notevoli. Ottimi anche Luigi Fedele, già visto in Piuma, davvero bravo nella sua performance del giovane chef affetto da Asperger, e Valeria Solarino, assistente sociale apprensiva e ribelle. Ultimo, ma non meno importante, Alessandro Haber, che interpreta al meglio lo spirito del film.
Quanto basta ha la sua importanza nell’attuale panorama italiano, come lo avranno altri prodotti che usciranno in sala nei prossimi mesi. È parte di una riflessione generale del nostro mercato e soprattutto del nostro pubblico, ormai stufo di vedersi proporre formule stantie e moribonde. I decisamente troppi autori e registi nostrani dovrebbero avere l’umiltà e il realismo di riconoscere che non è necessario fare per forza capolavori mancati. Si può fare cinema anche solo per il gusto di raccontare bene una piccola e dignitosissima storia.