Ottantre anni, malato da tempo di cancro ai polmoni, Paul Newman se ne va e ci lascia un grande vuoto, perché è difficile pensare che uno dei più grandi attori americani di sempre non possa nuovamente apparire in un cameo o darci un’ultima lezione di cinema. Come aveva fatto in Era mio padre nei panni di John Rooney, patriarca della criminalità irlandese a New York costretto a scegliere tra il figlio che ha e quello che avrebbe sempre voluto. O ancora di più quando la Pixar gli ha dato l’occasione di diventare Doc Hudson, una meravigliosa coupè degli anni Cinquanta vincitrice di ben tre Piston Cup, l’omaggio più bello che si potesse fare a un uomo che ha sempre amato motori e velocità.
Paul Newman non c’è più, lascia la moglie Joanne Woodward, anche lei attrice dalla classe straordinaria e sua compagna da una vita, e anche in questo Newman ha sempre dimostrato di essere una persona quasi anomala a Hollywood. Fedele, rispettoso dell’istituzione stessa della famiglia, impegnato in numerose attività umanitarie e di beneficenza, da tempo lontano dalle luci della ribalta, ma sempre pronto a prendere al volo un buon ruolo e lavorarci sopra fino a farlo suo e renderlo indimenticabile.
Newman ha segnato esattamente cinquant’anni di cinema, dal 1956, anno in cui è interpreto Lassù qualcuno mi ama, film pugilistico diretto da Robert Wise, fino al 2006, in cui presta appunto la sua voce per Cars. Tutta l’evoluzione del ruolo dell’attore all’interno dell’industria cinematografica americana in questo eguale periodo di tempo si deve in gran parte a lui (e anche, sebbene in misura minore e in forma diversa, a Marlon Brando). Già nei suoi primi anni di carriera, infatti, Newman ha subito fatto delle scelte difficili e importanti, come il ruolo di Ben Quick ne La lunga estate calda, un set fondamentale per lui, perché ebbe l’opportunità di duettare con Orson Welles e di conoscere la sua futura moglie Joanne Woodward e un regista con cui avrebbe in seguito fatto grandi film, Martin Ritt. Ma soprattutto ebbe la possibilità di dimostrare tutte le sue qualità in un ruolo completamente diverso da quello positivo ed eroico che lo aveva lanciato, il pugile Rocky Graziano, piuttosto un antieroe guascone e sfacciato, un carattere che avrebbe più volte ripreso in seguito, dandogli tante diverse sfaccettature.
Come fece d’altronde proprio in quello stesso anno 1958, interpretando per Arthur Penn un rivoluzionario, nell’accezione più Guevariana del termine, Billy the Kid in Furia Selvaggia, e il Brick Pollick de La gatta sul tetto che scotta, in cui un sex symbol come lui veste il pigiama di un macho impotente e probabilmente gay, con al fianco una bollente Elizabeth Taylor.
Prima nomination all’Oscar e soprattutto la consacrazione di Newman come esempio da seguire per tutte le nuove generazioni, già orfane di James Dean e con due icone tormentate come Montgomery Clift e Marlon Brando troppo sfuggenti per poter essere prese come esempio da seguire.
Paul Newman invece, grazie alle sue scelte, riuscì a cambiare i rapporti di forza proprio grazie alla sua capacità di scegliere i ruoli, non disdegnando oltretutto la commedia, consapevole che per essere amati dal grande pubblico bisogna anche saperlo far ridere e che conquistato il potere grazie al popolo, si può avere una libertà di scelta quasi illimitata.
Dopo Missili in giardino, slapstick oltretutto tutt’altro che da sottovalutare in cui viene letta in chiave rosa la paura nucleare durante la guerra fredda (non a caso la firma è quella di Leo McCarey), Newman può quindi gettarsi in un tour de force che parte dal dramma intimista di Dalla terrazza, per passare poi a un kolossal politicamente impegnato come Exodus di Otto Premminger e che continua con alcune delle sue migliori interpretazioni e dei suoi personaggi mai dimenticati: Eddie Felson ne Lo spaccone, Hud Bannon in Hud il selvaggio, Chance Wayne ne La dolce ala della giovinezza. In mezzo anche un piccolo film di Ritt (regista anche di Hud), Paris Blues, un’opera che deve molto alla Nouvelle Vague e che è sempre stato uno dei film più amati dallo stesso Newman, sempre pronto a provare strade diverse e stimolanti (sempre con Ritt, pochi anni dopo, girò L’oltraggio, un remake in chiave western di Rashomon di Kurosawa).
Paul Newman aveva uno straordinario rapporto con i registi, e oltre al sodalizio con Martin Ritt, ha lavorato con molti dei più grandi talenti di Hollywood. Oltre a quelli citati vanno ricordati Alfred Hitchcock che lo volle per Il sipario strappato, Richard Brooks, John Huston, Stuart Rosenberg, con cui girò uno dei suoi film più politicamente impegnati, WASP, fino agli importanti sodalizi con George Roy Hill (tre film: Butch Cassidy, La stangata e Colpo secco) e Robert Altman (Buffalo Bill e gli indiani, Quintet).
Prima di molti altri suoi colleghi attori, nel 1968 per l’esattezza, Newman provò la regia, oltretutto con eccellenti risultati già all’esordio con Rachel Rachel, in cui davanti alla macchina da presa a rappresentare la famiglia c’era solo Joanne Woodward nel ruolo della protagonista. Ma in seguito stare dietro la macchina da presa non fu mai una sua priorità, tant’è che alla fine sono solo tre le sue regie, l’ultima del 1987, Lo zoo di vetro, una magnifica trasposizione della piece di Tennessee Williams, un’altra delle sue grandi passioni.
Gli anni Ottanta sono quelli della grande rincorsa all’Oscar che arriverà prima onorario, nel 1986, e poi l’anno dopo per Il colore dei soldi, probabilmente il peggior film di Scorsese e una delle interpretazioni meno intense di Newman, dopo aver sfiorato la statuetta per ruoli indimenticabili, tra cui quello regalatogli da Sidney Lumet ne Il verdetto, l’avvocato alcoolizzato Frank Galvin, e nell’occasione lo vediamo confrontarsi con un altro mostro di bravura come James Mason.
Dopo la conquista dell’Oscar, Newman comincia a diradare le sue apparizioni cinematografiche, dedicandosi sempre di più alla famiglia, alla sua scuderia di auto da corsa, alla beneficienza e alla sua azienda di prodotti gastronomici. Il cinema lo cerca, ma lui ancora una volta dimostra la sua forza, scegliendo solo quei ruoli che considera davvero importanti e a lui vicini.
I due film elegiaci diretti da Robert Benton, Nobody’s Fool e soprattutto Twilight, noir crepuscolare già dal titolo, sono assolutamente da riscoprire per vedere quanto l’arte di Newman si fosse straordinariamente affinata nel corso degli anni, una recitazione la sua diventata quasi scientifica in cui gesti, espressioni, sguardi, toni, tutto viene fuori con una naturalezza disarmante. In Mr. Hula Hoop i Coen ne fanno un capitalista senza scrupoli e lui sembra che non abbia fatto altro nella vita, James Ivory lo trasforma in un rigido borghese dell’America degli anni Cinquanta e Kevin Costner vuole essere suo figlio nello struggente melò Le parole che non ti ho detto.
Ora Paul Newman non c’è più e il cinema perde uno dei suoi più grandi personaggi, capace di scardinare le regole di Hollywood con le sue scelte e anche per questo punito da quell’istituzione presso la quale lui stesso cercava considerazione e approvazione, proprio come Hud Bannon la cercava nei confronti di suo padre o William Bonney dall’America stessa.
Robert Redford, Tom Hanks, Tim Robbins, Tom Cruise, in ordine sparso solo alcuni degli attori che hanno imparato da lui e se oggi i vari Pitt, Clooney, Penn e pochi altri possono essere ciò che sono lo devono in gran parte a lui, un attore capace di uscire dagli schemi delle major per fare della sua carriera qualcosa di utile non solo per sè, ma anche per il pubblico e per i suoi colleghi, presenti e futuri.