C’è differenza tra stare da soli ed essere soli. Chi scrive lo va ripetendo da anni, e trovarselo dichiarato da un attore come Harry Dean Stanton, su grande schermo, fa un certo effetto. La differenza “between lonely and alone”, laddove alone viene declinato in “all-one”, tutti e uno, gioco di parole fondamentale che si perde con il doppiaggio di Lucky – ed è un vero peccato.
È tutto in quella differenza, che improvvisamente si assottiglia e spaventa, il senso di Lucky, rarissimo ruolo da protagonista di Stanton, l’ultimo della sua vita. Non ne aveva mai voluti fare, a parte Paris, Texas, anche se gliene furono offerti molti. Lui, con quella faccia definita e coriacea, il sorriso stentoreo e lo sguardo dolce, è stato uno dei più grandi caratteristi di sempre perché rifuggiva la ribalta, perché richiedeva troppo impegno, e sul piedistallo dei divi non ci è mai voluto stare. Lui che ha lavorato con i più grandi, che viene definito il “feticcio” di David Lynch e di Sam Peckimpah, che è stato il padre più tenero e desiderabile in Pretty in Pink, scelto dall’indimenticato John Hughes, in realtà governava la sua vita. Non è stato il feticcio di nessuno, li ha scelti tutti in prima persona, quando non gli andava di starsene da solo.
Per questo Lucky è il suo testamento.
Non lo ha mai visto terminato, il film di esordio alla regia di un altro grande caratterista: John Carroll Lynch, che nessuna parentela vanta con il più famoso regista di Una storia vera, per molti versi specchio di Lucky. Stanton ha accettato questa volta, forse proprio perché da chi non è il primo nome sulla locandina si sentiva compreso, ma non ha mai potuto vedere il risultato. Più di cento ruoli tra cinema e televisione, i cinefili lo hanno amato dall’Ispettore Tibbs e da Nick Mano Fredda, passando per innumerevoli altri ruoli come quello in Dillinger, i più nerd lo hanno scoperto solo in Alien, e poi è venuto Lynch… Harry Dean Stanton ha attraversato quasi settant’anni di cinema prima di portare se stesso sullo schermo.
Lucky, un vecchio cowboy che fuma cento sigarette (come Stanton), che beve Bloody Mary ogni sera, che poi ogni mattina si alza e fa ginnastica, cura il suo corpo stanco, esce fuori casa in canottiera a coste e braghe vecchie, cappello e stivali, per annaffiare i cactus. Lui, che ama le parole crociate e non riesce a evitare ancora una certa piaggeria di maniera con le donne, che ha scelto di stare da solo e guardare in faccia il realismo (“Realism is a thing!”) delle cose e delle situazioni.
E David Lynch gli fa da controparte, con uno sguardo più infantile e meno disincantato, con un desiderio poco realizzabile, con una dolcezza commovente, questa volta come attore, tra una pausa e l’altra durante la lavorazione di Twin Peaks, perché non poteva mancare nel testamento del suo amico.
Lucky è il ruolo della vita di Harry Dean Stanton.
Questo ha scritto Variety e di seguito tutti gli altri. Ma piuttosto, è il lascito di questo grande attore a chi lo ha amato pur lasciandolo da solo, un po’ di lato, dove gli piaceva stare. La sigaretta tenuta in mano come in quella epica scena di dialogo, scritto da Hughes, al fianco del giovane Jon Cryer, il volto che sembra dirigere lui la macchina da presa.
John Carroll Lynch firma come prima regia un film magnifico, denso di dialoghi, di colori pieni, con una fotografia fulgida, maiuscola e straniante, una pellicola indipendente che è un gioiello in mezzo alla esagerata quantità di produzioni di questo tipo, un regalo a chi ha amato Stanton, tra Coppola, Milius e Carpenter. Inquadra il suo corpo emaciato e stanco, eppure monumentale, con enorme poesia e rispetto, elogiando quella vecchiaia che il mondo intero teme, quell’attimo in cui la volontà di stare da soli perde l’equilibrio verso la paura di restare da soli. Ripreso dal basso, Harry Dean Stanton, con gli zigomi ancora più scolpiti dai rossi e dai blu, con i soffitti in vista, lezione da Lynch evidente, e mille altre citazioni dai grandi con cui Stanton ha lavorato. Quelli che, ora lo sappiamo, ha scelto.
Lucky è il dono di Harry Dean Stanton alle generazioni che lo hanno amato, difficilmente comprensibile da chi al cinema si approccia oggi, poiché lontano anni luce dal fracasso dei cinecomics e dalle logiche da botteghino nel primo weekend. Un film così ha un respiro lungo e largo, come il deserto in cui è ambientato. Se ne può parlare a lungo filosofeggiando, al banco in legno di un pub, come fanno i personaggi a corredo di questo finale di partita, epico, fino all’ultima inquadratura, che resta negli occhi ore e ore dopo la visione.