Quante leggende sono nate sul set a proposito della crudeltà di tanti grandi del cinema. Vittorio De Sica escogitava metodi per far piangere il piccolo protagonista di Ladri di biciclette che oggi lo porterebbero senz’altro di fronte a un giudice. Stanley Kubrick, dal canto suo, era maniacale come pochi altri, capace di far ripetere un ciak anche ottanta volte per poi magari scegliere in montaggio la prima ripresa.
Associare in qualche modo Lars Von Trier a questi giganti della storia del cinema mi risulta difficile
Dato che non credo che il regista danese possieda neanche un decimo del talento dei due citati, così come di tanti altri più o meno celebri. Dalla sua, però, ha certo un sadismo che lo porta a rendere la lavorazione una specie di inferno terreno in maniera così efficace che inevitabilmente questo disagio si riflette sul film e sulle emozioni degli spettatori.
In questo Von Trier ha del criminale, dato che ama giocare sulle corde più semplici da toccare per fare scalpore, portando le sue eroine fino al livello più basso della degradazione umana, in modo da renderle delle eroine inevitabilmente adottate dal pubblico e ricordate come esempio di bontà e dedizione. Così è stato per Emily Watson ne Le onde del destino, ancora di più per l’immensa Bjork di Dancer in the Dark, entrambe elementi fondamentali dei film da loro interpretati per il cineasta danese.
Anche Dogville non si poteva girare senza Nicole Kidman.
Non tanto per la sua bravura, in Moulin Rouge e in Eyes Wide Shut l’abbiamo vista senz’altro meglio, quanto per il desiderio recondito che ognuno di noi ha, uomo o donna che sia, di vedere un’icona irraggiungibile ridotta a uno stato di cattività estremo, spogliata della sua dignità, ferita e violentata nell’animo, trasformata in qualcosa di meno che una bestia.
L’incredibile capacità di Von Trier di giustificare la voglia di nefandezza dell’essere umano, riesce a fare di questa tensione esecrabile ispirazione artistica. Dogville nasce così, poco c’entra la critica agli Stati Uniti che è alla base di questa nuova trilogia (che proseguirà con Mandalay e Washington), quello che conta è mostrare la crudeltà del genere umano.
La scelta di fare teatro filmato, idea neanche troppo originale nemmeno nel suo sviluppo scenografico, serve semplicemente a spogliare ulteriormente l’animo umano di quelle ormai poche sovrastrutture usate ipocritamente per giustificare le più basse nefandezze. La scomparsa delle pareti permette di mostrare finalmente tutto, l’intimità della casa dove qualunque cosa può accadere non ha più segreti.
Ecco cos’è Dogville, uno dei molti luoghi in cui si possono sfogare le proprie turpi voglie.
Questa è l’idea di cinema secondo Lars Von Trier che proprio mostrandosi in una veste tanto spoglia riesce anche a rendere più efficace il suo cinema, alleggerito anche nel ritmo e nella narrazione, aiutato dalle capacità di un cast in stato di grazia, Stellan Skarsgard e Ben Gazzara su tutti.
Il pericolo è un altro: questo sguardo dentro la parte più scura dell’animo umano potrebbe scoperchiare il vaso di Pandora dell’arte cinematografica. Dopo il Dogma, arriverà una nuova ondata di cinema della crudeltà?