The Interpreter ha per protagonista Sylvia, traduttrice che lavora al Palazzo di vetro dell’ONU di New York. Una sera, per puro caso, ascolta attraverso le cuffie della sala degli interpreti, una conversazione in un dialetto africano nella quale si fa menzione di un attentato a un leader di uno stato africano proprio durante il suo discorso alle Nazioni Unite. Messa immediatamente sotto protezione, Sylvia non riesce però a convincere l’agente dei servizi segreti a cui viene affidata l’operazione: la donna nasconde molti segreti che si intrecciano con le vicende dell’uomo nel mirino.
The Interpreter, un tuffo nel cinema classico
In un cinema sempre di più governato dagli effetti digitali, dai montaggi supersonici e dalle iperboliche strutture narrative, trovarsi di fronte a un’opera girata come ai bei vecchi tempi è un piacere non comune. Soprattutto se dietro la macchina da presa c’è un signore che si chiama Sydney Pollack, cineasta straordinario che ha vissuto quel periodo aureo del cinema americano che va dal 1968 al 1975. In quegli anni autori come Arthur Penn, Hal Ashby, Mike Nichols, Bob Rafelson, Alan J. Pakula e alcuni altri nomi eccellentissimi, erano capaci di tirare fuori dal cilindro serie impressionanti di film di livello eccelso e di ogni genere.
LEGGI: CONVERSAZIONE CON SYDNEY POLLACK
Lo stesso Pollack ha girato western (Corvo Rosso non avrai il mio scalpo), melò (Come eravamo) e due grandissimi thriller, Yakuza e I tre giorni del Condor, entrambi datati 1975. Nel corso degli anni, Sidney è tornato più volte sul luogo del delitto, in maniera più o meno specifica, realizzando interessanti contaminazioni come Diritto di cronaca, dramma su l’etica e la deontologia con venature gialle, e Destini incrociati, un melò a tutto tondo in cui veniamo sorpresi da un intrigo inaspettato. E sempre sua è una delle migliori trasposizioni di un romanzo di John Grisham, Il socio.
The Interpreter, quando le parole contano
Scritto da un trio d’eccezione composto da Charles Randolph (Munich), Scott Frank (Minority Report) e Steven Zaillian (Schindler’s List), The Interpreter non tradisce le attese, facendo entrare lo spettatore in tensione sin dalle prime inquadrature, utilizzando una struttura narrativa classica, in cui tutti gli elementi cinematografici vengono utilizzati per arricchire la visione. Ci troviamo di fronte a un piccolo compendio del cinema classico americano, dall’utilizzo della traccia sonora che fa subito venire alla mente La conversazione di Francis Ford Coppola, ma anche per l’assoluta linearità del montaggio, la grande varietà di focali, sempre adoperate con correttezza linguistica, le luci e i cromatismi perfettamente calcolati da Darius Khondji. Tutti questi elementi sono frutto di un modo di fare cinema ormai lontano, in cui il film era davvero un’opera fatta del talento di molti artisti messi insieme dal metteur en scene, unico depositario della visione globale.
The Interpreter, ovvero del regista e i suoi attori
Pollack, nonostante le sue incursioni dietro la macchina da presa siano sempre più rade, non ha perso smalto e dimostra di conoscere ancora bene cosa il pubblico vuole quando si siede nella buia sala. Prima di tutto le stelle, quelle che brillano di più, e Sean Penn e Nicole Kidman sono tra le più luminose di questi anni. Entrambi non deludono, la Kidman addirittura, con cui Pollack aveva lavorato in Eyes Wide Shut, sembra essere colta dalla sindrome di Meryl Streep (ovviamente in lingua originale) e parla un inglese con un’ombra malcelata di accento olandese, mentre Sean Penn è perfetto nel ruolo dell’uomo tormentato dal rimorso, è come se fosse andato a ripetizione da Durrenmatt per tutta la vita.
Il cast di contorno è e resta tale, nonostante una sempre brava Catherine Keener e lo stesso Pollack che si ritaglia la parte del capo dell’agente Keller/Penn, ma deve essere così, perché The Interpreter è un gioco a due, proprio come negli anni Settanta, dove le coppie erano Redford e la Streisand, McQueen e la Dunaway, Sutherland e Jane Fonda. E come in quegli anni, non si sta facendo solo cinema, ma si vuole anche lanciare un messaggio. La figura dell’interprete si trasforma nel corso del film e, continuando ad ascoltare, smette di tradurre per dare spazio alle parole più importanti che dovrebbero essere universali: pace, libertà, fratellanza. Un messaggio forse ingenuo, soprattutto da parte di un cineasta esperto come Pollack, ma quanto mai attuale.
The Interpreter prende spunto dalla fredda cronaca quotidiana e la rielabora.
A uso e consumo di un’audience abituata a esplosioni, intrighi e colpi di scena continui e sebbene il finale lasci un po’ delusi, perché costruito con eccessiva ingenuità nel corso del film, ci troviamo di fronte a un’opera ineccepibile dal punto di vista squisitamente formale. Un classicismo che troviamo ormai solo in pochi cineasti americani, da Ron Howard, vero e proprio paladino dei generi, a Cameron Crowe, unico esponente di quanto resta della commedia sofisticata. Non si tratta di mera nostalgia, ma conoscere le basi vuol dire saperle rielaborare, cosa che avviene sempre più di rado in una cinematografia statunitense che si aggrappa a sequel, remake, saghe e trasposizioni da serie tv, queste ultime unica vera novità della cultura popolare di questi anni.
Ma se il piccolo schermo sarà la salvezza, allora godiamoci ancora qualche stralcio di grande cinema, memori del tempo che fu.