Quando il sostantivo ‘autore’ è seguito dall’appendice ‘di culto’, vuol dire che ci troviamo di fronte a un personaggio che ha in qualche modo contribuito a dare al cinema una serie di elementi difficilmente riscontrabili nella maggior parte dei suoi colleghi, più o meno stimati. Questa considerazione la possiamo fare senz’altro per Takashi Miike, cineasta giapponese che nel corso degli anni è riuscito a crearsi uno stile a suo modo innovativo e originale.
Gozu è un esempio lampante della strada percorsa da Miike in questi anni. Film difficile e disturbante, Gozu è allo stesso tempo un’opera da analizzare con attenzione, ricca di connotazioni tematiche che ricorrono nel cinema giapponese degli ultimi vent’anni, dalla trasformazione dei corpi (vedi Tsukamoto), al rapporto con la modernità, fino alla rappresentazione estrema della sessualità, dalla perversione all’ingenuità virginale.
Gozu può essere fondamentalmente considerato un melò che per molti versi piacerebbe ad Almodovar, ma è arricchito da una serie di audaci contaminazioni, dall’horror alla commedia grottesca, con una struttura che lascia lo spettatore continuamente spiazzato.
Non mancano nemmeno i difetti, sopratutto causati da un disequilibrio narrativo e dall’eccessiva dilatazione temporale che allunga il film più del dovuto, ma in un panorama internazionale sempre più monotono, Gozu è un film per molti versi necessario e impreziosito da un gusto per l’immagine ispirato da un talento naturale e non costruito dalle convenzioni della moda del momento.