È stato un parto difficile Bohemian Rhapsody. Il film, naturalmente, e non indolore. Soprattutto per Graham King, produttore coraggioso, e non potrebbe essere diversamente per un professionista che ha passato buona parte degli ultimi vent’anni a trattare con Martin Scorsese. E a cercare di portare sullo schermo la vita di Freddie Mercury. Alla fine c’è riuscito, con le malizie che ogni eccellente uomo di cinema usa per realizzare un film di successo.
Bohemian Rhapsody non è la storia di Freddie Mercury
Forse è più la storia che i sopravvissuti (soprattutto Brian May e Roger Taylor, John Deacon c’entra poco e niente già da molti anni) avrebbero voluto fossero i Queen. Quattro amici che sognano di fare musica e suonare di fronte a folle oceaniche. D’altronde, lo cantarono loro stessi, “Friends will be Friends, Right till the End”, ma non furono tutte rose e fiori.
In ogni caso, non come la racconta Anthony McCarthen, su soggetto del bravo piegatore di vite che è Peter Morgan. La loro visione di Freddie Mercury è molto romanzata, troppo considerando la consulenza di Peter Freestone, l’assistente personale della rockstar negli ultimi undici anni di vita. E non si è trattato di seguire i dettami di John Ford sul raccontare la leggenda. Semplicemente, si sono utilizzati gli ingredienti base per un rock biopic di successo.
Bohemian Rhapsody, la colonna sonora della nostra vita
Soprassediamo quindi sulle molte imprecisioni, anche temporali, e sulle cose inventate di sana pianta. Questa non è la vita di Freddie Mercury, ma un addomesticato omaggio dei sopravvissuti, che hanno approfittato anche per togliersi un paio di sassolini dalla scarpa.
Detto ciò, Bohemian Rhapsody è un film ben più che gradevole. Rami Malek è bravo, soprattutto una volta superato l’impatto con l’eccessivo make up dentale, e anche i suoi tre colleghi sono eccellenti, casting perfetto che era elemento fondamentale per la buona riuscita del film. Il racconto si dipana dalle origini attraverso i grandi successi della band, passando per tutte le fasi canoniche: fratellanza, crisi, eccessi, diverbi creativi, celebrazione del genio e dolore della perdita.
Tutto compresso, con fretta e confusione, per arrivare con il bagaglio di emotività necessario per godere al meglio dei venti minuti finali, girati per certo, e la mano si vede, da Bryan Singer (ve lo assicuro, ero sul set n.d.r.). Venti minuti entrati nella storia del rock, 13 luglio 1985, l’esibizione dei Queen al Live Aid, perfettamente ricostruito per chi non era ancora nato. Venti minuti che valgono tutto il film, più volte, perché trentatre anni dopo quella potenza resta intatta, e le lacrime scorrono inevitabili e copiose.
Grazie Freddie, di esserci stato. Di esserci sempre.