I tre giorni del Condor di Sydney Pollack possiede una sua malinconia. A rivederlo oggi si percepisce piuttosto chiaramente che questo capolavoro ha chiuso un periodo storico, un’epoca in cui dentro il cinema di genere, come poteva essere la spy-story, si trovavano soluzioni narrative ed estetiche di enorme rilevanza. Con questo film il regista ha preso alcune coordinate – soprattutto hitchcockiane – del thriller classico e le ha adoperate nella loro massima potenza espressiva.
Basterebbe la prima sequenza, quella della strage nell’ufficio della CIA, per capire come l’uso del montaggio e del sonoro siano di una competenza inarrivabile. Il prologo di presentazione delle vittime è scandito con una lucidità e un tempo filmico impressionanti: in pochi minuti ci viene detto che Joe Turner (Robert Redford) è un impiegato geniale ma discontinuo, che ha un flirt con una collaboratrice di origine asiatica, che non ama particolarmente il suo lavoro ma che apprezza i suoi colleghi, anche i superiori più burberi. Nell’ufficio in sottofondo rimane costante il rumore vagamente fastidioso della telescrivente. Quando Turner esce per andare a comprare la colazione, i killer entrano e compiono la strage.
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Qui il film fa un salto qualitativo come pochi se ne sono visti nel cinema contemporaneo: la scena è praticamente senza dialoghi, l’unico rumore è ancora quello della telescrivente, che adesso è divenuto ossessivo, minaccioso. Pollack elabora un prodigio di regia e montaggio tenendo le inquadrature il tempo necessario perché siano esse stesse a creare tensione invece del loro concatenarsi frenetico. L’attesa dell’evento sanguinoso in questa scena è un orologio calibrato al millesimo, un congegno cinematografico perfetto.
Il realismo del massacro è dato dall’assenza di sottolineature, dall’utilizzo di elementi sonori e scenografici preesistenti.Come nella realtà, il passaggio dalla condizione normale a quella di tragedia non viene preannunciato da musica o altro, avviene e basta. Una sequenza da brividi. Durante il successivo percorso narrativo questo procedimento viene poi adoperato per accentuare il senso di straniamento che il protagonista sviluppa nei confronti della realtà: chiunque può essere una spia, a nessuno è concesso ricevere fiducia.
Con I tre giorni del Condor Pollack costruisce una ragnatela sensoriale
Abbina efficacia ed eleganza, aiutato da un direttore della fotografia leggendario come Owen Roizman. Come già splendidamente elaborato ne L’esorcista, il suo uso di punti luce all’interno dell’inquadratura, soprattutto nelle scene con il “nemico” Max Von Sydow, accresce a dismisura il senso di angoscia. In un’America paranoica, logorata dalla guerra in Vietnam e appena scossa dallo scandalo Watergate, I tre giorni del Condor è diventato un manifesto dello stato di un Paese che a metà degli anni ’70 si ritrovava a riflettere sulla sua condizione di potenza politica ed economica, e a scoprire di essere scricchiolante e molto poco amato. Sydney Pollack e Robert Redford – il cui film successivo a questo sarà Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula – sono la coppia che più di ogni altra ha provato a raccontarne il malessere, e con questo lungometraggio ha evidenziato come il nemico da combattere fosse soprattutto il deterioramento interno, percepibile sia negli organi istituzionali come la CIA che nel sistema sociale immobile rappresentato dal film: Joe Turner nella sua fuga è realmente solo, non ha l’appoggio della collettività o del prossimo, entrambi paralizzati dal terrore e dalla paranoia. Il magnifico, apertissimo finale è la testimonianza che l’individuo può sperare di sopravvivere soltanto se smette di credere nel Paese che dovrebbe garantirgli sicurezza. Il nichilismo di questo paradosso è uno degli apici ideologici del cinema americano di quel decennio.