È ricca di tristi coincidenze la morte di Carlo Rambaldi, maestro degli effetti speciali italianissimo che trovò la fortuna in America, dopo avere imparato il mestiere, e bene, in patria. La prima è di essere mancato il 10 agosto, notte di stelle cadenti, lui che proprio col cinema con protagoniste galassie lontane ha costruito la sua fortuna. La collaborazione con Steven Spielberg cominciò con Incontri ravvicinati del terzo tipo e si rinnovò cinque anni dopo con E.T. per cui vinse il suo terzo Oscar. Il secondo se lo meritò con Alien, lavorando insieme a H.R. Giger alla creatura dello spazio più famosa della storia del cinema. Il primo, onorario, se lo portò a casa per il molto terrestre King Kong di John Guillermin, assai più umano di quello digitale della coppia Jackson – Serkis.
La seconda triste coincidenza è la situazione in cui versa Cinecittà, luogo dove tornò dopo i successi americani per insegnare il mestiere ai giovani, che però già preferivano una tastiera e un microprocessore al lavoro meccanico, fatto di fusibili, martinetti idraulici e pelle sintetica.
Carlo Rambaldi costruiva robot a cui dava un’anima, quella di chi ha imparato ad amare il cinema sui set dei peplum degli anni Cinquanta. Nella sua trentennale carriera, Rambaldi è passato da Alberto De Martino a David Lynch (Dune, per cui aveva ideato i vermi giganti del pianeta Arrakis), da Antonio Margheriti a Ridley Scott, facendo proprio con Margheriti un passaggio, neanche troppo fugace, per la factory di Andy Wahrol, lavorando nei due film di Paul Morrissey Dracula cercava sangue di vergine… e morì di sete, e Il mostro è in tavola, Barone Frankenstein.
In Italia era stato usato da due autori che di generi se ne intendevano, Pupi Avati e Dario Argento, per cui curò gli effetti di Profondo Rosso, all’estero ha lavorato addirittura per Zulawski, creando la mostruosa creatura di Possession.
Ma Rambaldi non è mai stato profeta in patria, anzi, e la sua carriera era di fatto terminata alla fine degli anni Ottanta, stanco probabilmente anche delle stupide polemiche che molti colleghi invidiosi e giornalisti in caccia di scoop avevano montato intorno ai suoi più celebrati lavori.
D’altronde, lo sport preferito dagli italiani è sempre stato quello di demolire i suoi idoli, buoni o cattivi che siano. Continua ancora oggi e Carlo almeno questo non dovrà più sopportarlo.
A noi piace ricordarlo per una delle sue creazioni più naif, il bisonte di Sfida a White Buffalo, Moby Dick terreno e incubo di Charles Bronson e Will Sampson in un mediocre film di Jack Lee Thompson. Eppure, quella grossa mucca dal pelo bianco che correva su un binario, ancora oggi ha un fascino artigianale che solo chi ha amato genuinamente il cinema sarebbe in grado di trasmettere allo spettatore.
Non è facile e non è da tutti.