Alla fine degli anni Novanta Michael Glatze era uno dei maggiori attivisti gay degli Stati Uniti. Caporedattore di XY, una delle riviste omosessuali più importanti d’America, Glatze si prodigava nell’incontrare giovani confusi o impauriti dalla loro sessualità. Fidanzato felicemente, Glatze aveva sofferto molto per la prematura scomparsa dei genitori, la madre, fervente cristiana, di cancro. Il padre per una malformazione cardiaca congenita. La stessa di cui era convinto di soffrire lui stesso. Non era così, ma tale fu la gioia di non poter morire stecchito da un momento all’altro che lo prese per il volere di Dio. E per rendergli gloria decise di abbandonare la cattiva strada e perseguitare i sodomiti.
Un lungo preambolo necessario, perché la storia di Glatze è talmente assurda da sembrare scritta da un bravissimo sceneggiatore. Invece è tutta vera e la racconta un pupillo di Gus Van Sant, qui produttore, Justin Kelly. Biopic onesto ma raccontato con la giusta dose di ironia, I am Michael è una storia umana a suo modo tragica, la parabola di un uomo in cerca di se stesso e incapace di trovarsi realmente. Tratto dal romanzo dell’ex compagno, il film di Kelly riesce quasi sempre a mantenere una visione benevola di Glatze, nonostante l’avversione di quest’ultimo nei confronti di diversità e minoranze, tratteggiandone l’incongruenza come una profonda confusione esistenziale che ne fa una vittima delle sue azioni.
Nei panni di Glatze troviamo un ottimo James Franco, sempre a suo agio nei ruoli borderline, e al suo fianco un altrettanto bravo Zachary Quinto, compagno abbandonato in nome di Dio. Kelly svolge il compito senza sbavature, dando soprattutto il giusto ritmo al film che scorre via piacevolmente lasciando un senso di profondo disagio. Perché che si chiami Dio o Allah, il problema è sempre chi pensa di parlare in sua vece.