Come poter scrivere di Terrence Malick? Come poter condensare in un paio di cartelle la grandezza del cineasta per eccellenza? È probabile che neanche lui, costretto a un’autobiografia critica che mai scriverebbe e tantomeno girerebbe, riuscirebbe a farlo. E, lo ammetto, pochi altri articoli mi hanno messo più in crisi, forse solo quello che scrissi per il ritorno del Napoli in A. E non scherzo.
Non scherza neanche questo cineasta che con kubrickiana ossessione per la perfezione lavora poco e bene, che è diventato uno dei più grandi della storia centellinando opere e inquadrature, creando, inventando un ritmo unico e suo, cesellando performance recitative – ha fallito una sola volta, con Colin Farrell – e posando pietre miliari nella Settima Arte e nei suoi generi con titanica naturalezza.
Da La rabbia giovane, che fu un pugno nello stomaco al mondo e a una generazione, uscito in un anno cruciale della storia moderna (quel 1973, dal golpe contro Allende all’inizio di quello di Nixon, ha cambiato il nostro modo di pensare il potere) a The New World (2005), ha dipinto affreschi ambiziosi in cui portare avanti la sua idea di cinema e di vita con sobrio assolutismo.
In questo speciale ci sarà un accurato percorso critico dei nostri straordinari redattori attraverso le cinque tappe – e non solo – di una carriera di quasi quarant’anni. Tra I giorni del cielo e La sottile linea rossa (uno dei film preferiti da Martin Scorsese) passarono vent’anni. Eppure non vanno cancellati nell’analisi. Fu una pausa più capotiana che salingeriana, quelle due opere più che dei giovani Holden erano due A sangue freddo. Truman non riuscì a uscire dal tunnel del capolavoro inarrivabile, lui sì. Semplicemente tornando a livelli inumani per i comuni mortali. Non diede sfogo ai talenti che la vita gli ha generosamente elargito.
Ornitologo e filosofo, traduttore di Heidegger e professore, persino operaio di pozzi petroliferi (che il padre trovava, in quanto geologo), Terrence Malick in quei vent’anni ha viaggiato. E si è fatto scippare film da Annaud – La guerra del fuoco lo costrinse a interrompere i colossali sforzi per fare il preistorico Q, così come Elephant Man di Lynch lo allontanò da una storia troppo simile – accontentandosi di un pugno di sceneggiature. Viaggiò come un pazzo, dal Nepal alla Siria e per dieci anni preparò La sottile linea rossa. Per dimostrare, è quello il sospetto di molti, che anche in un genere consumato e un po’ consumistico, lui sarebbe stato il migliore. Spielberg rischia di scipparglielo con Salvate il soldato Ryan, ma lui lo ignora ed esce lo stesso. Una delle poche sconfitte di Steven: La sottile linea rossa, con Full Metal Jacket e Apocalypse Now, è nel pantheon dei film sulle guerre sporche, infami. Allora tutto lo star system hollywoodiano – che lui ha sempre allontanato, l’esordio se lo pagò ipotecandosi anche i vestiti – si offrì gratuitamente, ma lui declinò le offerte e mise su un cast comunque pazzesco. Tra gli scartati anche Brad Pitt, che in The Tree of Life è protagonista insieme a Sean Penn (al secondo film con Terrence Malick).
Uomo che dell’immagine ha fatto arte pura, odia essere ritratto: chi scrive lo ha visto nella famosa scena con Martin Sheen de La rabbia giovane e grazie a Mario Sesti, nel 2007, che riuscì con Antonio Monda a portarlo all’Auditorium di Roma in uno degli incontri di “Viaggo nel cinema americano”. Un evento blindato, emozionante, in cui quell’uomo enigmatico e geniale svelò i suoi gusti, mostrando una venerazione per Totò e riscrivendo la grammatica della critica cinematografica su di sé. Perché, contraddicendo la premessa, la lucidità, la consapevolezza con cui guarda il cinema, soprattutto quello altrui, è straordinaria. Allora mostrò grande ammirazione per Fellini e Germi, per Olmi e Monicelli, intrattenne con la sua spigolosa cultura un pubblico selezionato. Non ebbe neanche paura di esprimere il disprezzo anacronistico per TV e show business. Terrence Malick è quello che inviti a casa tua perché è un genio e non smetti mai di sentirti a disagio perché non solo tu non lo sei, ma non puoi neanche capirlo.
Quello che in altri sarebbe solo un capriccio, in lui è esigenza. Gira solo nel momento magico, nel vespro, nell’antitramonto. Venti minuti scarsi. Guardi i suoi film, e capisci che ha ragione. È capace di ritirare un film dalle sale (The New World) per rimontarne diciassette minuti. Guardi le due versioni, e capisci che ha ragione. Eppure quei cinque film – è già in fase avanzata il sesto – pur nella loro diversità, raccontano una sola grande storia, sono capitoli di una cinematografia che ha una volontà proustiana di descrizione del reale. La natura contro l’uomo, sempre soccombente. La guerra imperialista, tra i soldati e le vittime, la sanguinosa ribellione generazionale, persino quel Richard Gere arrivista e cinico, in controluce, sono lo specchio di questa battaglia atavica. Guardare un suo film è spiare la creazione di un’opera d’arte, una costruzione quasi divina, mentre l’uomo cerca di abbatterla. È il sangue, la rabbia, la follia che ti investono mentre qualcuno suona soavemente sul Titanic.
Una piccola curiosità. Il caso Scorpio è tuo lo vede tra i consulenti di sceneggiatura. Già, Callahan. E Eastwood è diventato il regista che conosciamo: ci piacerebbe pensare a Clint che si abbevera alla ruvida e raffinata arte di Terrence. Magari sapere che chiacchieravano in un angolo, tra prolungati silenzi. Ed è tra i co-sceneggiatori di Che -Guerrilla, il secondo capitolo sul rivoluzionario argentino di Soderbergh. E ci piace pensare che lì ci sia qualcosa di The New World. Quello che mancava perché fosse anch’esso un capolavoro. Chissà, è impossibile fare domande a Terrence Malick. Ma tanto probabilmente non capirei le risposte.
Ecco perché guardarlo immergersi nel suo cinema è il regalo più grande.