Gli Stone Roses sono stati uno dei gruppi più importanti della scena musicale inglese degli ultimi trent’anni. Nonostante abbiano inciso solo due album in studio, la band di Manchester dalle sonorità che sintetizzano il meglio del pop-rock britannico della fine degli anni Settanta e inizio Ottanta. Nel primo album, The Stone Roses, senza dubbio uno dei migliori degli ultimi venticinque anni, ritroviamo sonorità che ricordano i Cure, gli Smiths, ovviamente i Joy Division, fino al punk dei Clash e dei primi U2. Quattro ragazzi che non hanno fatto la carriera dei loro illustri predecessori di Liverpool, costretti a fermarsi per alcuni anni per una diatriba legale con la casa discografica e velocemente scioltisi dopo l’uscita del secondo album, del 1994, cinque anni dopo il primo.
Passano diciotto anni e Ian Brown, John Squire, Mani e Reni, decidono che è arrivato il momento di mettere da parte i dissapori e di riunirsi per un tour mondiale. Questo dopo che la loro musica ha influenzato quasi tutte le maggiori band degli anni Novanta e Duemila, gli Oasis prima di tutti, ma anche i Blur, gli Arctic Monkeys e molti altri. Soprattutto, dopo avere lasciato orfani della loro presenza milioni di ammiratori in tutto il mondo.
Tra questi anche Shane Meadows, grande regista di film come This is England e Once Upon a Time in the Midlands, che un giorno ha la fortuna di ricevere la telefonata della vita: gli viene chiesto di seguire la band dalla conferenza alla fine del tour per filmare la reunion e farne un documentario. Ecco quindi The Stone Roses: Made of Stone, non un film concerto e neanche un documentario alla Pennebaker, ma un tributo quasi religioso di un fan nei confronti di un tempo passato e felice, in cui la musica sembrava ancora poter cambiare il mondo. Meadows si fa prendere un po’ la mano e non riesce a dare equilibrio alla narrazione, si sofferma molto sulle prove in studio, sul concerto a sorpresa e sulla reazione dei millecinquecento fortunati spettatori. Soprattutto non fa mancare l’elemento fondamentale, la musica, che la fa padrona, molto a discapito del dietro le quinte, lasciando la band per la maggior parte del film come una reliquia da guardare da lontano, giù dal palco o al massimo da dietro le quinte, per non rompere la magia.
Forse è anche giusto, ma ne soffre la narrazione che non trova una organicità e paradossalmente ritmo. Non siamo ai livelli di Shine a Light e lontani anni luce dalla bellezza di Heart of Gold di Jonathan Demme, ma in ogni caso sto riascoltando con piacere The Stone Roses ed è ancora un album clamoroso. Quindi va bene così.
Alessandro De Simone