Raccontare quanto sia complicato e allo stesso tempo magnifico essere giovani non è facile. Ci hanno provato in molti, pochi ci sono riusciti: Truffaut, John Hughes e forse qualcun altro. Il cinema italiano ha affrontato l’argomento nella maggior parte dei casi dal lato del dramma, concedendosi poco ai generi, se non alla commedia, spesso scollacciata e non sempre riuscita. Questione di sensibilità culturale, e non è un male, perché in fondo la straordinaria Stefania Sandrelli di Io la conoscevo bene era un’incarnazione dell’Italia degli anni Sessanta, violentata dal boom economico che nascondeva un vuoto di valori, con una eguale esplosione di crescenti solitudini e malesseri sociali ed esistenziali.
La situazione non è molto cambiata. Oggi si vive in un vuoto pneumatico culturale amplificato dalle nuove tecnologie che dell’isolamento sono la prima causa. Ma a parte gli sproloqui socio-culturali, l’età inquieta, per citare un grande film sull’argomento di André Techiné, è cinematograficamente una bomba a orologeria, più o meno come uno squilbrio ormonale o un eccesso di testosterone. Bisogna saperla gestire, equilibrare, in qualche modo addolcire anche nei suoi eccessi, per poterne trasmettere al meglio la sua devastante potenza. Claudio Giovannesi aveva dimostrato di avere questa sensibilità già con il suo precedente lungometraggio, Alì ha gli occhi azzurri, ma Fiore è un passo avanti notevole.
Daphne è una giovane problematica, vive dove capita, ruba, finisce in riformatorio. Il rapporto con le compagne è subito conflittuale, il padre è assente come le prospettive future. Josh è recluso nell’ala maschile, è triste, la ragazza l’ha lasciato, chiede a Daphne un favore. E insieme si daranno una speranza.
Storia d’amore raccontata con leggerezza e il giusto grado di realismo, senza eccedere in superflua rabbia o violenza, Fiore è l’ennesima conferma che il cinema italiano si sta muovendo grazie a una ritrovata fiducia nei generi. Com’era già successo alla fine degli anni Novanta, tendenza che per ragioni ignote fu precocemente abbandonata, nonostante ne vennero fuori prodotti di spessore come La capagira di Alessandro Piva e soprattutto Nella mischia, il folgorante esordio di Gianni Zanasi a cui Fiore deve molto come tempi, atmosfere e sensibilità. E non a caso, il buon Gianni, uno dei migliori talenti del nostro cinema, produce con la Papkin. Oltre ciò, c’è tanto Truffaut in Fiore, il primo Assayas, quello di L’eau froide per intenderci, che non a caso era parte del progetto collettivo Tous le garcons et le filles de mon age, uno sguardo sulla gioventù ancora oggi da sezionare e studiare scena per scena. E poi John Hughes nella scrittura dei due bellissimi protagonisti che prendono al cuore con le loro interpretazioni, Daphne Scoccia in particolare è un corpo cinematografico eccezionale: dura, sognante, romantica e vulnerabile. Sentiremo parlare di lei molto e molto presto. Di Valerio Mastandrea invece non sappiamo più neanche che dire, meraviglioso padre ex galeotto che capisce il mondo interiore della figlia con pochi sguardi.
Fiore è un grande film, da vedere e magari anche rivedere, con almeno tre momenti che prendono al cuore e non se ne vanno più, tra cui la dichiarazione d’amore più romantica degli ultimi anni al cinema. E sarà perché sono un vecchio sentimentale, ma di film così ce ne vorrebbero di più.