E se il prossimo Superman non fosse dalla nostra parte? Se fosse solo un egoista consapevole della sua superiorità che non vuole altro che assoggettare il genere umano piegandolo a una inesorabile quanto vacua venerazione? È ciò che si chiede Amanda Waller, agente segreto governativo con una quantità di scrupoli di segno negativo, all’indomani della morte del più grande supereroe di tutti i tempi. Per far fronte alla crisi prima che si verifichi, Waller mette in piedi un esercito, una squadra speciale composta dai peggiori supercattivi che l’America sia mai riuscita a catturare, ignorando che proprio in seno a tale esercito si stia annidiando la minaccia tanto temuta. Questa l’esile trama a supportare l’immensa operazione commerciale che è Suicide Squad, probabilmente uno dei film più attesi dell’intero anno.
Anteprime colme di cosplayer, diatribe social tra critici e pubblico (ma sono poi vere? Finora sembra tutto così tiepido da essersi sgonfiato in poche ore) ed effetti boomerang utilissimi a portare il pubblico in sala anche a Ferragosto. Inventa una polemica e riempi la sala. Fai dire a qualche influencer, magari autore di fumetti, che la critica cinematografica è morta o rantola, e il pubblico sarà tutto dalla tua parte a prescindere. La manipolazione del gradimento è pari a quella che fa la Weller su June Moone.
Suicide Squad non è amabile né detestabile.
Punta al medio, si assesta su quella implacabile mediocrità che ormai invade un po’ tutti i cinecomic, dà colpi al cerchio e colpi alla botte, strizza l’occhio ai nostalgici del camp, ma ci mette qualche spruzzatina di acido per gli amanti dei personaggi di punta, con una scorzetta di emo, che non si sa mai, magari non sono proprio tutti passati di moda…
La regia di David Ayer è buona, ottima, come ottimo è sempre il suo dirigere un gruppo che per una qualche coercizione è costretto a stare insieme: alla fine quello che più resta sono i colori, la gioia negli occhi e il sorriso smagliante di Margot Robbie. Lei e Will Smith, di nuovo insieme dopo Focus – Niente è come sembra del magnifico duo Ficarra & Requa, sono il centro della vicenda. Deadshot e soprattutto Harley Quinn sono scritti benissimo. Riscritti, a dire il vero. In funzione dell’amore, che smuove il mondo. Dei buoni sentimenti, provati all’enesima potenza da loro che sono supervillain. Amori morbosi, malati, inspiegati e inspiegabili. Eppure edulcorati, perché il Mad Love tra Harleen Quinzel e il suo paziente non può finire sul grande schermo, in un film di massa. A far digerire bocconi amari si provò timidamente con Watchmen, e già lì si dovette tagliare mezza graphic novel. Stupro, violenza, asservimento e amore acidamente tossico non sono adatti a un pubblico che non potrebbe mai capire.
Ed è proprio il Joker di Jared Leto il grande assente, l’ombra che aleggia, ma che non lascia alcun segno. Dopo il taglio di numerose scene che lo vedevano protagonista, resta poco dello studio dietro al personaggio che sicuramente il premio Oscar ha fatto sulla sua psicologia: ha trovato la sua massima espressione nella campagna di pre-lancio del film e lì si è esaurito. Qui altro non è che un innamorato emo, un Edward Cullen con i tatuaggi e i capelli verdi, che deve ritrovare la sua Bella, matta come un cavallo e certamente meno testa vuota della protagonista di Twilight, ma sempre pronta a tutto, anche all’autodistruzione, per il suo Puddin’. È lei, Margot Robbie, a bucare lo schermo dalla prima all’ultima scena, sebbene indossi il peggior costume di sempre. La scheggia impazzita, l’interpretazione perfetta, sguardo appena sopra la macchina e carica erotica incontenibile – e ci aggrada molto il fatto che un progetto su Harley Quinn vedrà presto la luce.
La falla, quella irreparabile, è il cattivo in un mondo di cattivi. Perché i villain, si sa, sono sempre i più interessanti. E poggiandosi pigramente su questo, nessuno ancora è stato in grado di portare sullo schermo l’autentica oscurità di Batman. Ma se qui i cattivi sono i buoni, il cattivo avrebbe dovuto essere davvero un demonio. Invece si è scelto di mettere una modella da copertina, con i movimenti rigidi, ferma in piedi a minacciare con voce cavernosa e nessuna espressione facciale. Almeno Gozer il Gozeriano aveva poche scene e non la pretesa di essere una minaccia per l’intero genere umano.