P.T. Barnum, il protagonista di The Greatest Showman l’inventore dello show business, il fondatore del circo moderno. Filantropo, sfruttatore dei reietti, giornalista, politico: Barnum è stato tutto e il contrario di tutto.
La sua figura è tanto affascinante quanto controversa e, sebbene approdò al circo solo dopo i sessant’anni, viene ricordato soprattutto per aver fondato il Ringling Bros e Barnum & Bailey Circus, meglio conosciuto come Circo Barnum, o “il più grande spettacolo del mondo”, se preferite. Fondato nel 1871, divenuto il primo, celeberrimo “circo dei freak” ha chiuso i battenti solo pochi mesi fa, nel 2017, dopo la coraggiosa decisione presa un paio di anni prima di non sfruttare più gli animali all’interno dello show. La concorrenza spietata di altre tipologie di spettacolo, ormai più mainstream e dal biglietto meno dispendioso, ha fatto il resto.
Eppure, in un secolo e mezzo di vita, il più grande e longevo circo della storia ha ospitato i migliori artisti del mondo, circensi e non. Grandi divi e attori, tra cui la stessa Marilyn Monroe, si sono avvicendati sulle tre piste del circo Barnum, quell’uomo di spettacolo dalle lunghe vedute che, ogni volta che ha avuto un possibile concorrente (Bailey, i fratelli Ringling), anziché fargli la guerra, lo ha preso con sé, per far crescere ancora di più uno spettacolo che era larger than life.
Nato come museo, raccontato nel film di Cecil B. DeMille Il più grande spettacolo del mondo (ambientato proprio all’interno del circo e con il cast dei circensi che si mescolò agli attori), il circo di Barnum era un caleidoscopio di diversità animali e umane: donne esotiche, popolazioni lontane, gemelli siamesi, albini, donne barbute, nani e ballerine, elefanti, giraffe e l’unica mummia di sirena, la famosa Sirena delle Fiji, che Barnum ottenne assemblando il busto di una scimmia e la coda di un grosso pesce. Lui, il mistificatore che portò gioia alle genti.
Oggi la sua storia diventa un musical, desiderato e in programma da tempo, per raccontare con massicce dosi di edulcorante e uno schemino esile esile, degno di un qualsivoglia filmetto sulla danza con protagonista la ragazzina di provincia, la nascita di questo grande show. Ecco che allora il giovane Phineas diventa magicamente il figlio di un pover’uomo che fa la fame, a cui un giorno un freak dona una mela e illumina di sogni la sua vita.
A incarnarlo, da adulto, uno Hugh Jackman in stato di grazia, che nuota come la succitata sirena nelle acque dolci a lui ben conosciute del musical in stile Broadway. Al posto dell’espressione senza speranza di Wolverine, ha negli occhi la luce radiosa di chi solo chi sale su un palco è capace, ben felice di roteare un bastone al posto degli artigli.
Si esprime al meglio Jackman, e rende tridimensionale un personaggio cliché, con le musiche orecchiabili e i testi scontati degli autori delle canzoni di La La Land (se per quelle hanno avuto un Oscar, per queste cosa accadrà?), incarna il parallelo stesso delle arti mistificatorie per antonomasia, il cinema e il circo.
Accanto a lui Zac Efron, uno degli autori più sottovalutati della sua generazione, che egregiamente gli tiene testa. Capace di infondere espressività all’intero corpo, Efron si lancia in un duetto con Jackman e ne nasce un passo a due maschile senza virtuosismi, ma di grande fascino e intensità, forse la scena migliore del film.
Il cast tutto, dalla bellissima Zendaya a Keala Settle, passando per Rebecca Ferguson, è azzeccato. Con l’unica eccezione di colei che avrebbe dovuto essere la migliore, Michelle Williams che sfigura accanto all’imponenza vocale e performativa di Jackman.
In mano a Baz Luhrman questo film sarebbe stato davvero un grandissimo spettacolo. O a qualcuno con il vero senso del circo, specie quello freak, come il Tim Burton di Big Fish. Invece uno show di questa portata è stato affidato a un esordiente assoluto, Michael Gracey, proveniente dai videoclip e dalla pubblicità, che firma una regia assolutamente standard.
Lascia in bocca l’amarezza di ciò che poteva essere e non è, con cotanto materiale da plasmare, e invece la buona riuscita sta a The Greatest Showman come The Great Gatsby sta a uno spot che ne scimmiotta lo sfarzo e ne cristallizza lo stile. Punta alla riconoscibilità e alla mediocrità, in tutto ciò su cui si sarebbe dovuto puntare di più: le coreografie, un hip hop semplice con passi vecchiotti e con tanto di tutorial per tutti su YouTube, e i costumi, coloratissimi e scontati, firmati da quella Ellen Mirojnick che pure aveva svolto bene il lavoro in Dietro i candelabri.
E alla fine chi ne esce malissimo è lo stesso P.T. Barnum, la cui storia non viene raccontata, la cui importanza non viene affatto spiegata a chi non lo conosce, ridotto alla macchietta di un giovanotto con un sogno da realizzare, come in mille altri film.
Eppure The Greatest Showman regala qualcosa di importante a chi guarda.
La leggerezza e l’emozione di chi, uscendo da una sala (o da un circo) sa benissimo di essere stato raggirato, ma se lo lascerebbe fare ancora e ancora. Canticchiando This is me, si esce leggeri e sorridenti, inebriati dal caleidoscopio di forme, luci, colori, di diversità umana della quale il film è portatore. Il diverso che diventa il simbolo della lotta a qualunque discriminazione, razziale, sociale, di genere e chi più ne ha più ne metta. Barnum diede per primo una dignità umana alle deformità, consapevole di quanto la meschinità dell’essere umano ne subisca il fascino, se tenuto a debita distanza. Lo si afferma con superficialità, ma con determinazione, e oggi più che mai è importante farlo cercando di ridurre quella distanza: la diversità è ricchezza.