Dallo spazio profondo a un loculo di Manhattan e nel mezzo tanti modi diversi di prendersi gioco di una nuova generazione di spettatori. Creata da lui. Attraverso i videoclip più belli della storia. E adesso David Fincher vuole scoprire il suo ascendente…
Ci sono delle situazioni dalle quali è oggettivamente difficile uscire. Una di queste è decidere di esordire sul grande schermo stravolgendo una saga fantascientifica adorata da milioni di fans in tutto il mondo. E uscirne vivi. O almeno sani di mente. A David Fincher è riuscita la prima. Sulla seconda qualche dubbio balena, ma poco importa, se è questo lo scotto da pagare per poter godere delle opere di questo geniale cineasta che in poco più di quindici anni ha lasciato già un’impronta importante nella storia del cinema, seppur con pochi film all’attivo.
David Fincher, dal Colorado a George Lucas
Eppure la carriera di David Leo Fincher, nato nel 1962 in quel di Denver e cresciuto poi tra la California e il Colorado, inizia a diciotto anni in una piccola casa di produzione, la Korty Films, per poi approdare, dieci anni prima di incontrare Ripley, nel reparto miniature e matte paintings della Industrial Light & Magic. È lì che si fa le ossa, lavorando ai modellini de Il ritorno dello Jedi e agli sfondi de La storia infinita e Indiana Jones e il tempio maledetto. Nel 1984 inizia la sua carriera dietro la macchina da presa, girando spot e video musicali. Nell’ambiente diventa ben presto qualcuno, tanto che nel 1987 crea, con i colleghi Dominic Sena, Nigel Dick e Greg Gold, la sua casa di produzione, la Propaganda Films, che avrà tra i suoi clienti i maggiori marchi che hanno contribuito alla globalizzazione, da Nike a Coca Cola, passando per Pepsi, AT&T, Chanel e chi più ne ha più ne metta.
David Fincher e l’arte del videoclip
Lo stesso accade anche nel settore del videoclip, visto che i grandi artisti degli anni Ottanta se lo litigano. Inizia con Sting che gli affida il bianco e nero di Englishman in New York, primo singolo di Nothing Like the Sun, secondo album dell’uomo una volta noto (ai genitori e alla zia) come Gordon Summer. Quindi Paula Abdul, poi gli Aerosmith, per cui gira il fantastico Janie’s Got a Gun, Billy Idol (Rock the Cradle of Love) e soprattutto George Michael e Madonna. Per l’ex Wham dirige Freedom 90, riunendo le più importanti top model dell’epoca in un piccolo capolavoro di sei minuti. Tatiana Patitz, Linda Evangelista, Naomi Campbell, Kristy Turlington e Cindy Crawford, tutte insieme per questo gioiello di montaggio, immagini patinate, tagli di luce, un gustoso aperitivo quello che di lì a poco avremmo visto al cinema.
E non è un caso che la signora del Pop, Madame Ciccone in arte Madonna, non si sia fatta sfuggire il talento visionario di Fincher per il suo Express Yourself, costosissimo video in cui si fondono l’icona Marlene (Dietrich, non la mela della Val di Non) e l’espressionismo postmoderno di David da Denver. Ne viene fuori un Metropolis soft core, kitsch quanto basta per piacere alla diva e per far vedere che il ragazzo ha davvero stoffa da vendere. Tanto che Madonna gli affida la sua immagine per ben altre due volte, consacrandola come ultima vera star in un mondo di mezze calze grazie al video, perfetto, di Vogue.
David Fincher e l’Alieno
Nel frattempo, Walter Hill, sceneggiatore e produttore della saga di Alien, sta cercando un regista che prenda in mano la spinosa questione relativa al terzo episodio, la cui sceneggiatura ha subito una serie infinita di revisioni, capitando tra le mani di chiunque, non ultimo William Gibson, uno dei padri della letteratura cyberpunk. È un chiaro segnale: dopo l’approccio orrorifico di Ridley Scott e l’adrenalinica donna guerriera di James Cameron, il terzo decennio dell’Alieno si doveva aprire all’insegna della riflessione e dell’introspezione. Un concept completamente nuovo a cui bisognava anche trovare un look adatto, post atomico, sporco, decadente, in linea con il soggetto scritto dal neozelandese Vincent Ward, con il passato che s’insedia in un futuro lontano. La scelta ricade sul giovane Fincher, poco più che trentenne all’epoca, da tutti visto come un talento straordinario e considerato dal giorno in cui appose la firma sul contratto di Alien al cubo il più grande coglione di Hollywood, perché neanche un pazzo ubriaco drogato avrebbe accettato di farsi massacrare una promettente carriera da un flop annunciato, del quale si sarebbe stati quasi certamente involontari parafulmini. Ma David Fincher accetta senza porsi problemi, prende il toro per le corna e si ritrova su un set con Sigourney Weaver, la fa rasare a zero (altro che Demi Moore e Natalie Portman) e poi tira fuori un film visivamente straordinario e incredibilmente ambiguo.
Ma la morale è un concetto estremamente relativo nel mondo di David Fincher che, dopo avere incassato insulti (tanti), complimenti (pochi) e centosessanta milioni di dollari worldwide per avere mostrato il primo parto alieno da donna umana, si ritira a riflettere per tre anni. In questo periodo si dedica alla sua casa di produzione e si toglie lo sfizio di girare Love is Strong, un videoclip con i Rolling Stones che sovrastano lo skyline di New York.
I sette peccati di David Fincher
Per vederlo riapprodare sul grande schermo bisognerà aspettare il 15 settembre del 1995, quando sugli schermi americani esce Seven, un thriller a tinte foschissime che vede come interpreti l’esperto Morgan Freeman e tre star in ascesa: Brad Pitt, Gwyneth Paltrow e Kevin Spacey.
La caccia a John Doe, serial killer che concepisce i suoi delitti ispirandosi ai sette peccati capitali è un’inesorabile discesa negli inferi dell’animo umano, accompagnata da un’incessante pioggia battente e dalla pellicola desaturata e trattata chimicamente da Darius Khondji, con un finale sconvolgente lontano anni luce dall’happy end hollywoodiano.
Il terrorista David Fincher
Elementi che in buona parte ritroveremo presto in Zodiac, progetto a lungo atteso che racconta le gesta dell’assassino dell’oroscopo (e non stiamo parlando di Branko e le stelle) che dalla fine degli anni Sessanta terrorizza la California con una serie di delitti tutt’ora insoluti (si parla addirittura di quaranta omicidi attribuibili a questo mostro della Bay Area) che hanno ossessionato giornalisti e poliziotti per oltre trent’anni. E proprio di questa ossessione parla il film del nostro David, che si è assicurato un cast straordinario: Robert Downey Jr., Mark Ruffalo e l’attore più hot del momento Jake Gyllenhall.
Chissà se riuscirà a fare il colpaccio come con Seven: incassi da capogiro, ma soprattutto dividere il pubblico ancora una volta tra quelli che lo considerano solo un clipparo prestato al cinema e i suoi ammiratori incondizionati, convinti d’aver trovato un nuovo genio. Lui però ha anche una sua opinione:
“Non mi interessa molto il cinema d’intrattenimento. Io sono dell’idea che i film debbano fare paura. L’esempio perfetto è Lo squalo: dopo averlo visto non ho mai più fatto il bagno nell’oceano.”
Ma in realtà si sta solo prendendo gioco di tutti, consapevole che sul grande schermo si possono raccontare le più grandi bugie del mondo facendole passare per la realtà. In Seven si burla dello spettatore fino all’ultima scena e continuerà a farlo anche nel suo film successivo che s’intitola, guarda caso, The Game.
È a questo punto che incomincia a sorgere il dubbio, si fa per dire, che David Fincher sia un terrorista antiglobalizzazione e non fa neanche niente per nasconderlo.
“Io sono un uomo anticommerciale. Anche per questo nei miei spot non ho mai detto comprate questi jeans o queste scarpe perchè sono favolosi, perché penso che sia un’idiozia. Chunque pensi che apparire significhi essere è una persona molto povera e probabilmente malata”.
Niente male, vero? Insomma, prima si prende la briga di raccontare di multinazionali padrone assolute dell’universo conosciuto, poi condanna senza appello il moderno stile di vita americano e quindi prende un magnate della finanza e lo getta in un Monopoli senza via d’uscita in cui il premio in palio è la vita. Il cinema come arma di destabilizzazione e moralizzazione: una bella idea, non c’è che dire, anche se a un occhio più smaliziato potrebbe sembrare la presa in giro più grande di tutte, per uno che ha fatto la sua fortuna dirigendo commercials. Probabilmente è per questo che The Game non viene apprezzato, visto che alla gente non piace essere presa per i fondelli troppo a lungo. A questo punto l’ideale sarebbe cambiare direzione, ma come si dice, chi si astiene dalla lotta… Dopo aver rifiutato quindi di dirigere, con grande lungimiranza, 8mm, storia sul mondo degli snuff movies scritta dal suo amico Andrew Kevin Walker (l’autore di Seven, per intenderci), Fincher si getta a capofitto in un progetto che definire sovversivo è dir poco: portare sullo schermo un romanzo scritto da una giovane stella del firmamento letterario americano che si chiama Chuck Palaniuk e che gran parte della critica considera (in buona parte a ragione) un clamoroso bluff. Il titolo, naturalmente, Fight Club.
“La prima regola del Fight Club è non parlare del Fight Club”
Non era bastato quello che già avevamo visto? No, proprio no, quindi che vada a farsi fottere l’Ikea way of life e svegliamoci, basta farsi addormentare il cervello e le membra dalle corporazioni che speculano sulla nostra vita e persino sui rifiuti del nostro corpo che loro stesse ci hanno detto di odiare ed evacuare. Il messaggio è chiaro: rivoluzione, uomini in Terra di buona volontà, e se ancora non vi siete destati, dormienti Dickiani, prendetevi a cazzotti finché non uscite dal coma della vita quotidiana. Edward Norton e Brad Pitt, due corpi scolpiti dall’insurrezione, diventano icone di stile in un mondo sporco e tumefatto. Non contento, Fincher inserisce qua e là nel film alcune immagini subliminali, una di queste addirittura un pene eretto (quello di Brad, dicono alcune voci speranzose) e alla fine, immancabilmente, ci riserva la sorpresa. Il film provoca scandalo, viene ovviamente bollato come un puerile gioco provocatorio, ma non è un caso che proprio alla Mostra del cinema di Venezia del 1999, dove il film viene presentato, passi anche Essere John Malkovich, pazzoide opera di Spike Jonze, anche lui clipparo di alto livello, sceneggiata da quell’altra mente disturbata di Charlie Kaufman, Mr. Eternal Sunshine of the Spotless Mind (chiunque stia pensando Se mi lasci ti cancello verrà vaporizzato entro pochi secondi). È il segnale che qualcosa sta cambiando e Fincher è stato uno dei promotori di questo nuovo cinema americano fatto di storie folli, ma terribilmente vicine alla realtà quotidiana di uomini e donne, inserite in confezioni visivamente straordinarie, ricche di invenzioni e soluzioni ardite.
DAVID FINCHER, I SEI GRANDI FILM CHE HA RIFIUTATO
Eppure David continua a non convincere tutti. Fight Club diventa immediatamente un’opera di culto, ma non mancano, e non sono pochi, quelli che liquidano il film come una ragazzata senza costrutto. Ma un vero artista non si preoccupa certo di quello che dicono i suoi detrattori e quindi Mr. Fincher va dritto per la sua strada. Si prende un’altra pausa per cercare di capire dove vuole andare a parare, rifiuta tutto il rifiutabile, e poi nel 2002 rispunta fuori con un’altra storia in cui si racconta il disagio di vivere in questo mondo. Una grande e bella casa al centro di New York, una madre, una figlia e una camera segreta dove potersi rifugiare in caso di pericolo. Panic Room è un thriller molto classico nella struttura, non a caso scritto da uno sceneggiatore esperto come David Koepp, ma sottolinea ulteriormente il percorso da vero autore che sta sviluppando Fincher, sempre più teso in questa sua personale ricerca dei motivi del disagio dell’uomo moderno. La scelta di Jodie Foster non è un caso, lei che fu musa di Scorsese in Taxi Driver, il manifesto del metropolitano disturbato, e Jodie risponde con un’interpretazione maiuscola in un film che è tutt’altro che per il grande pubblico, ma che ha più il respiro di una messa in scena di un’opera angosciante di Jean Paul Sartre. Vero cinema d’autore, quindi, come d’altronde la serie dei cortometraggi di The Hire prodotti per la BMW, e Lords of Dogtown, piccolo gioiello del cinema indipendente di cui è stato produttore esecutivo.
E anche Zodiac, a dispetto della produzione certo non da film indipendente, non è un thriller a tutto tondo, ma più l’ennesima ricerca profonda nell’animo e nelle miserie di un’umanità alla deriva.
David Fincher, l’ottimista
Insomma, il cinema di David Fincher è cupo e pessimista. Ma anche se viene istintivo toccarsi i gioielli di famiglia pensando a lui dopo una simile analisi della sua opera, non riusciamo a non considerarlo un regista da amare. Semplicemente perché gli piace tanto rompere i marroni a tutti quelli che vorrebbero rifilarci prodotti stantii, film già visti e senza neanche lo straccio di un’idea. Fincher invece ha dato un’impronta personale alle sue opere, infondendoci un disagio, riflesso di quello ben più grande che viviamo da esseri umani che ogni giorno assistono inermi allo sgretolarsi di quella poca sanità che ancora ci circonda.
Anche per questo non vediamo l’ora di vedere Zodiac, film sul quale oltretutto vige un riserbo assoluto e su cui le notizie trapelano col contagocce e che già per questo fa discutere. E soprattutto perché finito questo inizieranno quasi immediatamente le riprese di The Curious Case of Benjamin Button, tratto da un racconto di Francis Scott Fitzgerald e sceneggiato da Eric Roth, collaboratore fidato di Michael Mann e Steven Spielberg. Cast ovviamente stellare, con Cate Blanchett e l’amico Brad Pitt. La storia? Quella di un bambino che nasce vecchio e che crescendo ringiovanisce…
David, ma non cambierai mai?