“Non è accettabile, da un punto di vista sociale e civile prima ancora che giuridico, che una persona muoia non per cause naturali mentre è affidata alla responsabilità degli organi dello stato”.
Giuseppe Pignatore – procuratore della Repubblica di Roma
Tutti conosciamo il volto di Stefano Cucchi morto. Quel viso che sembra appartenere a una salma uscita da un campo di concentramento, pieno di ecchimosi, con l’ossatura in evidenza, con quell’espressione sfinita. Quel viso, inquadrato in quel modo, non c’è nel film di Alessio Cremonini. Sarebbe stato facile, ovvio, una scorciatoia. Quella è un’immagine a cui ormai siamo assuefatti.
Sulla mia pelle è invece un film coraggioso.
Che tenta in qualche modo di dare voce a chi non può più parlare: Stefano stesso. Un rifiuto umano, un tossico, uno che non collaborava, che non si voleva far aiutare, una disgrazia per la sua famiglia. Alcuni dei modi in cui è stato descritto dal giorno della sua morte, avvenuta il 22 ottobre 2009, poco dopo aver compiuto trentuno anni. Appellativi probabilmente anche veri, sotto certi punti di vista. Poco importa cosa affermano le varie, vergognose sentenze susseguitesi da allora: Stefano Cucchi è stato ucciso.
Sulla mia pelle non è certo il primo film a parlare del Cucchi.
Ma è il primo a farlo in un modo delicato, umano, quasi discreto. Sarebbe stata un’altra scorciatoia cercare il sensazionalismo, mostrare le botte, indugiare sui lividi. Sarebbe stato facile portare alla ribalta la lotta di Ilaria che non si è mai data pace, nemmeno un giorno da allora, dipingere i carabinieri che lo hanno pestato come viscidi amanti della violenza gratuita, laidi e muscolari su un debole, malato e ammanettato. Invece Alessio Cremonini ha scelto un’altra strada. Quella del rispetto, in un film pieno di riguardo, quasi sussurrato. Che rispetta la famiglia Cucchi e il suo dolore, che le restituisce l’umanità che sta dietro alla lotta. E che per questo fa ancora più male.
Alessandro Borghi, dimagrito una ventina di chili come fanno le star di Hollywood, che ha dichiarato alla 75. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia – dove il film è stato presentato nella sezione Orizzonti – che la dieta lo ha reso antipatico e scostante, aiutandolo nell’interpretazione, ha svolto un lavoro impressionante su se stesso, sulla postura, la voce, lo sguardo. Ha portato sullo schermo Stefano, dandogli la vita che quella famosa foto non può comunicarci. Gli ultimi giorni di una vita disgraziata, quella di un essere umano, ucciso dallo stato.
Sono stati i numeri ad aver impressionato Cremonini, regista e sceneggiatore insieme a Lisa Nur Sultan. Centosettantasei morti in carcere nel 2009. Centoquaranta persone venute in contatto con Cucchi nei sei giorni di detenzione. Centoquaranta fra carabinieri, medici, paramedici, infermieri, agenti di polizia penitenziaria, giudici e pubblici ministeri. Persone. Cittadini. Altri esseri umani. Che hanno scelto di anteporre il riparo delle proprie terga a ciò che sarebbe stato giusto, anche a una semplice domanda. “Ragazzo, cosa ti è successo?”. Meglio farsi i fatti propri. Dopotutto, quello è un tossico, malerba, non vuole dire niente, non risponde, non collabora.
Se l’è cercata.
Come le ragazze in minigonna che vengono stuprate.
Stefano Cucchi è morto da solo. Il suo avvocato non è mai stato chiamato. La sua famiglia non ha mai potuto vederlo. Non una singola volta.
Solo dopo la morte, dopo che sua sorella Ilaria (interpretata da una bravissima Jasmine Trinca) ha preteso ciò che le spettava di diritto, la famiglia ha potuto vedere il corpo. Pesava ventisette chilogrammi.
Il film di Cremonini è discreto. Rispettoso. Lascia che la macchina cada in modo quasi naturale a inquadrare quel ragazzo difficile, diffidente, dentro stanze semivuote e maltenute. Lasciando che i dialoghi scarni donino spazio allo spettatore per riflettere sulle sensazioni interiori di Stefano. Un ragazzo che non ha mai saputo che la sua famiglia ha cercato di vederlo, che oltretutto si è sentito anche abbandonato dai suoi cari. È un film che non urla contro i carabinieri picchiatori, ma che mette in evidenza come la colpa sia dell’indifferenza, del voltarsi dall’altra parte di tutti coloro che avrebbero potuto fare qualcosa, anche una minima cosa, e non la hanno fatta. Che hanno scelto di non farla. In un momento storico-politico in cui la tendenza è quella di dare la colpa agli altri, soprattutto a chi è venuto prima, Sulla mia pelle non fa sconti a nessuno di noi.
Stefano Cucchi è stato ucciso dallo stato. E lo stato siamo noi. La colpa della sua morte, qui, non è imputata solo ai carabinieri o ai medici, ma a tutti coloro che hanno visto il Cucchi in quei sei giorni. La colpa è di tutti loro. E di tutti noi. Indipendentemente dalla posizione che assumiamo di fronte a tutto questo. Perché non possiamo affermare con assoluta certezza che avremmo agito diversamente da tutte quelle persone che hanno tangenzialmente toccato Stefano in quegli ultimi giorni, che non avremmo anteposto il nostro tornaconto. E perché ancora non ci siamo arrabbiati abbastanza. Perché soprassediamo sull’importanza della verità. Su Stefano Cucchi, su Federico Aldrovandi, su quanto accaduto alla Diaz e sulle altre innumerevoli indecenze del nostro stato. Di tutti noi, che permettiamo che uno squallido strillone affermi che il reato di tortura non deve esistere perché bisogna lasciare che le forze dell’ordine svolgano “il loro lavoro”, e che Ilaria Cucchi dovrebbe vergognarsi.
Fa male uscire dalla visione di questo film. Perché, senza mai alzare la voce, non risparmia nessuno di noi.