La nostra cinematografia ha sempre avuto una grande qualità. Quella di inquadrare perfettamente i momenti storici che la repubblica italiana ha affrontato nel corso degli anni. Prima il neorealismo, con Rossellini, De Sica e Zavattini, De Santis, il primo Visconti, che poi avrebbe raccontato in chiave drammatica la Milano degli emigrati, costretto a sradicarsi dai loro paesini nel Sud per andare a trovare lavoro nelle fabbriche del Nord. Rocco e i suoi fratelli è uno spaccato straordinario di quegli anni, tanto che il Così ridevano di Gianni Amelio di quasi quarant’anni dopo sembra un film ben più vecchio e soprattutto fuori luogo.
Come non accade a Il mio paese di Daniele Vicari, che ripercorre il viaggio che fece Joris Ivens in L’Italia non è un paese povero, film commissionato da Enrico Mattei, presidente dell’ENI, che voleva raccontare il nostro paese attraverso gli occhi di un grande artista. Paolo Taviani, che con il fratello Vittorio scrisse la sceneggiatura, mi ha raccontato un aneddoto quest’estate in proposito.
“Enrico Mattei ci chiamò e ci disse che voleva il più grande documentarista del mondo dell’epoca. Robert Flaherty era morto già da qualche anno, e allora gli proponemmo Joris Ivens. È il migliore, ci chiese Mattei. Sì presidente, però ci sarebbe una cosa: è comunista. Lui ci pensò un attimo e poi rispose: fa niente, lo voglio lo stesso”.
Ecco, la differenza sta tutta in questa risposta. È così che si racconta un paese, in grande per farlo diventare grande. Oggi non è così. L’Italia non è un paese povero, non ancora almeno, ma è misero e miserabile, anche perché non siamo in grado di raccontarlo. Non per mancanza di autori capaci, al contrario. Ma perché quello che sta accadendo non fa parte del nostro dna cinematografico.
L’Italia della ricostruzione l’abbiamo raccontata, e lo ha fatto meravigliosamente chi la visse, da Zampa a Monicelli, Comencini e altri, così come quella del Boom economico, con Risi, Bolognini, Antonio Pietrangeli, insieme a Pietro Germi uno dei più grandi cineasti italiani di sempre, Nanni Loy. Ed è quasi superfluo dire che Elio Petri sia stato quello che ha meglio raccontato le trasformazioni politiche del paese degli anni Settanta, da La classe operaia va in Paradiso a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, forse ancora di più con due film spesso trascurati, ma che sono quanto di più vicino a quello di cui oggi avremmo bisogno per raccontare lo sfacelo che ci circonda.
Sarebbe bello un Todo Modo che raccontasse un week end di disintossicazione dai social per il direttivo dei pentastellati, da Casaleggio Jr. alla recluta Di Maionese, Di Battista il maggiordomo assassino di Beppe Grillo Starnazzante. Si salva solo Toninelli, che fugge in macchina, ma viene sepolto dalle macerie di un ponte crollato a causa delle vibrazioni provocate dalla discoteca aperta da DJ Salvini.
Buone notizie, lo sarebbero senz’altro, ma è solo il titolo di un altro film di Petri, con un grande Giancarlo Giannini, una profetica visione di quello che oggi sta accadendo, una società gretta e ignorante che celebra profeti falsi e bugiardi, e chi non fa parte della schiera di adoratori vive in un mondo altro, estraneo.
Ecco, quel DNA ci manca. Quello che ci fa raccontare un’Italia anche solo vagamente distopica, tanto per usare un termine di cui spesso ultimamente anche si abusa, come fece Francesco Rosi in Cadaveri eccellenti. Il problema è che questa nostra Italia di oggi andrebbe portata sul grande schermo con una miscela tra Il pianeta delle scimmie, 1975: occhi bianchi sulla Terra e 2022: i sopravvissuti. Stranamente tre film interpretati da, Charlton Heston, uomo di estrema destra, che raccontavano il disfacimento dell’umanità causato da corsa agli armamenti, capitalismo imperante e governi accecati dalla bramosia di potere.
Forse ci manca, parafrasando Philip Roth, il grande romanzo italiano, ma senza il calcio al posto del baseball. Anzi, avremmo bisogno di un nuovo romanzo, perché uno lo abbiamo già avuto.
Si intitola C’eravamo tanto amati.
Ma l’amore, purtroppo, prima o poi finisce.