Si chiude Il Signore degli Anelli – Il Ritorno del Re il cerchio dell’avventura tolkeniana di Peter Jackson: un progetto durato più di sette anni, un lavoro che ha richiesto forza, costanza e un indomito coraggio, ma che ha certamente premiato ciascuno dei partecipanti.
Il terzo capitolo della trilogia mescola un po’ i libri tra loro comprendendo l’episodio della lotta con Shelob, il ragno gigante (collocata dal testo alla fine de “Le due torri”), e la spiegazione di come Smeagol sia venuto in possesso dell’Unico e di come la malefica influenza del ‘tesssoro’ lo abbia corrotto fino a farlo diventare la creatura Gollum (riassunta ne “La compagnia dell’Anello”, ma risalente cronologicamente addirittura a “Lo Hobbit”). Dalla personale rilettura del regista, peraltro sempre rispettosissima del testo e dello spirito di Tolkien, nasce una pellicola corposa, ancor più ricca sia di immagini che di emozioni.
Il viaggio dei nostri beniamini si conclude, la Compagnia è ormai divisa, ma nell’animo essi sono più uniti che mai: i pericoli, le insidie, i sacrifici e la fatica del viaggio, oltre al pesantissimo onere affidato loro, hanno comportato una crescita all’interno di ciascuno, una maturazione interiore e un’apertura mentale che nessun altro potrà mai avere. La pellicola è pervasa da valori assoluti, quasi sacri, sentimenti puri e nobili quali l’amicizia, la lealtà, la fedeltà alle promesse, il valore della vita nonostante la necessità di uccidere a causa della guerra, il senso dell’onore, della patria, del trionfo del bene, dell’amore e della speranza, più forte di qualsiasi arma. Tesori spirituali questi, che già si respiravano tra le pagine di J.R.R. Tolkien e che Jackson ha inteso imprimere sulla pellicola, avvalendosi del cast di attori più osannato degli ultimi vent’anni.
Il Signore degli Anelli – Il ritorno del Re: la scheda del film
La regia fa meno affidamento alle numerose carrellate che nei due precedenti film celebravano l’impianto scenografico e la sua monumentalità, si spoglia di autocompiacimenti a favore di una ripresa che mira di più a catturare gli sguardi e le inquietudini dei personaggi, a coinvolgere lo spettatore tanto al livello visivo che a quello emozionale. Persino le scene della battaglia di Minas Tirith, nonostante mantengano un altissimo carattere epico, sono condensate in episodi determinanti, in colpi di scena avvincenti, e mettono in evidenza tutto lo studio storico sulle tecniche belliche tanto caro all’autore ed enfatizzato dalle ricostruzioni di armi della Weta (il metodo di lotta combinata fra picchieri e arcieri degli Orchi era utilizzato, nel ‘500, dalla fanteria di Carlo V di Spagna).
Una novità assoluta rispetto ai due precedenti capitoli è la presenza di due canti (ricordiamo che il testo tolkeniano ne contempla moltissimi, concepiti da diversi popoli e quindi composti in diverse lingue e seguendo diverse metriche e stili di volta in volta aulici o più popolari) i quali avvicinano ancora di più l’opera cinematografica a quella letteraria.
Non v’è dubbio che questo ultimo capitolo sia il più avvincente dei tre: la piena maturazione anche del più piccolo degli elementi porta alla fine del tempo degli Elfi e il destino della Terra di Mezzo passa in mano agli Uomini. Una (ri)lettura che sconvolge – quanto lo fanno i testi – per l’attualità delle tematiche di cupidigia, di fame di potere, di follia dominatrice che offusca le menti. Ma la vera protagonista è qui la Speranza.