Non è facile recensire Fahrenheit 9/11 mentre il mio corpo è ancora teso e denso di rabbia. Vorrei riempire la pagina con scritte inutili e forse infantili come “Bush ti odio” e “Vattene!”, ma niente cambierebbe. Perciò vediamo di prescindere un po’ dai contenuti di questo incredibile documentario e cerchiamo di analizzarlo per quello che è: il film vincitore del Festival di Cannes 2002.
Dopo averne preso visione, è difficile credere che la scelta sia stata puramente estetica e non un preciso tentativo, socio-politico, di aderire alla lotta anti-Bush. Michael Moore è metodico, programmatico: aveva bene in testa il risultato finale e non è stato difficile per lui raggiungerlo. Ha raccolto documenti (in America, come da noi, tutto è pubblico, tutto è consultabile. Solo che lui è stato abbastanza testardo da attendere i tempi e le trafile della burocrazia), ha inserito filmati girati da altri, immagini di repertorio di telegiornali, TV private, interviste a star e politici (allucinante Britney Spears che appoggia il presidente mentra ‘ciancica’ volgarmente un chewing-gum. Ma lo sa il potere che ha sull’elettorato giovane?), riprese e foto di guerra, spezzoni di vecchi film.
Fahrenheit 9/11: il patriottismo, quello vero.
Il risultato è meno ordinato e armonico di Bowling for Columbine. Quello era semplicemente un capolavoro, ma anche questo film non scherza. Veloce, diretto, e costellato di ironia, quella amara ironia di un uomo come Moore, cosciente del paese dove vive, patriota – lui sì – davvero. Lui ama l’America, la vorrebbe diversa, vorrebbe quel paese che persegue il sogno di democrazia e uguaglianza.
E ci mostra Bush: un dittatore (non è un’esagerazione: c’è una scena nel film in cui il Presidente afferma che con la dittatura di fatto sarebbe molto più semplice) che persegue solo la logica del profitto, un assassino che ha speculato sul disastro dell’11 settembre, che manda i figli dell’America a morire, a bombardare, a uccidere a tempo di “Brucia, tetto, brucia”, a farsi fotografare accanto ai morti, a stuprare prigionieri, a gioire della morte di altri uomini. A morire dentro, come alcuni, più sensibili, affermano nel corso del film. Perché quando uccidi muori anche tu, muore la tua coscienza e non sarai mai più quello di prima.
Moore dimostra che non c’è un perché, che tutto fa capo a delle aziende, a coloro che tengono comizi economici dicendo pacatamente e senza battere ciglio che “al momento il guadagno sta in Iraq”, mentre lì la gente muore, i bambini sanguinano, restano orfani e soli, si svegliano al mattino senza la sicurezza di riaddormentarsi la sera.
Fahrenheit 9/11: quello che non volevamo, quello che non vogliamo
Ci sono anche delle scene girate in Iraq, quelle che nessuna televisione ci mostrerà mai. Dovete avere il pelo sullo stomaco per quelle. Altrimenti piangete pure. Non credo che qualcuno vi prenderà in giro. Forse Bush lo farebbe. Lui preferisce far vedere che sa tirare a golf (e nemmeno bene).
Ci sono poi altri protagonisti: i compagni di merende di Bush e papà George H. W. Bush, la disgustosa Condoleeza Rice, una piccola parte ce l’ha pure il Primo Ministro Tony Blair. Manca solo un attore, che pure fa parte di tutto questo: Silvio Berlusconi. Lì, negli States, è stato dimostrato che Bush non lo vuole più nessuno. Anche da noi Silvio lo vogliono in pochi. Noi non stiamo diversamente, neppure noi abbiamo una buona informazione. Anche da noi c’è conflitto di interessi e a governare è la logica del profitto.
Andate a vederlo. È necessario.