Un fatto di cronaca purtroppo ancora “normale” nel nostro paese: in Ride, presentato in anteprima al Torino Film Festival, un giovane operaio muore sul posto di lavoro, a Nettuno, località di mare nel Lazio. Lascia una moglie, un figlio di dieci anni, un padre anch’egli operario in quella stessa fabbrica e ormai in pensione, un fratello ex galeotto. Amici, ricordi, vicini di casa. Valerio Mastandrea esordisce dietro la macchina da presa e tira fuori un film delicato, potente, arrabbiato, quieto.
Una moglie, Carolina, che se ne sta in casa a far trascorrere le ore. Il giorno che precede i funerali, ai quali parteciperanno anche le TV, che sembra durare un’eternità. Personaggi che si susseguono per le doverose condoglianze, per consolarla. Convenevoli. E lei non piange. Vorrebbe, ma non può, non riesce. Sovrastata da persone che la circondano, ma che non ci sono davvero. Devastata da un dolore che non le viene consentito di sentire. È passata una settimana e non è cambiato niente. Non è mai stata ancora davvero sola.
Ride è l’elaborazione di un lutto
Facile. Ci sono tante storie dentro Ride, ma la più lampante è quella di Carolina che elabora il suo lutto. O almeno, che vorrebbe farlo, perché le viene negato. Una Chiara Marteggiani bravissima, piena di sfumature e autenticamente bella, che le dà corpo e anima, che la fa vivere nell’accettazione di una morte che non le hanno dato il tempo di realizzare. Dolore, rabbia, incredulità e senso di colpa. Delusione, noia, frustrazione e oppressione. Tutto passa sul suo viso delicato, sulle quelle labbra carnose appena dischiuse, sui suoi occhi tondi e increduli. Tutto in piccole variazioni, che Mastandrea accarezza con la macchina da presa come un vecchio amico che ti ha sempre amato e stimato.
Rivendicare il diritto di stare male. Perché non c’è solo il funerale da organizzare, non ci sono solo i diritti televisivi e una immagine più o meno pubblica da rimandare. I documenti, le conseguenze legali e un figlio che va in ogni caso nutrito, vestito e consolato. L’immagine che gli altri si aspettano, quello che tutto ciò che ci circonda vuole da noi. Sempre. Ogni giorno. Nella società che ti vende i grandi sorrisi a denti bianchi, tutti dritti e perfetti, che rifugge anche una sola ora di dolore o di noia, dell’edonismo finto che è solo mente offuscata da sostanze, alcol o frastuono, lontano anni luce dai piaceri veri di quello autentico, lei – come noi – non può soffrire davvero. Nessuno te lo permette davvero, perché le coscienze si lavano meglio e si smacchiano più in fretta se pensano di averti consolato, con una frase precotta magari.
Ride è lotta di classe
Mauro è una delle tante morti sul lavoro, tragicamente frequenti in Italia. Per questo anche l’azienda per cui lavorava ha addosso l’occhio di bue dello sguardo pubblico. Per questo anche suo figlio Bruno, di appena dieci anni, sente di dover dire qualcosa, qualunque cosa, pur di non restare da solo. “Ma davero nun semo serviti a un cazzo? O quarche cosa de decente l’avemo fatto?”, si chiede il padre di Mauro, con i suoi ex colleghi, tutti operai, tutti dello stesso colore politico, tutti legati alle lotte di classe della generazione di lavoratori che fu. Tutti colpevoli di aver creato l’Italia del lavoro di oggi. Riflessioni dure, tanto più amare quanto più silenziose, tanto più insulse quanto più sono uniti lui e i suoi amici, ormai vecchi petulanti, che si sopportano a vicenda, che hanno l’uno per l’altro quel bene senile e inossidabile e profondissimo di chi l’ha vita l’ha giocata tutta insieme nella partita dell’unica esistenza concessa. Insieme allora e insieme ora.
Ride è il conto dei figli ai genitori
Insieme sempre, tranne nel momento in cui si deve davvero pagare il conto. Perché quello di un padre a un figlio è un conto che può pagare solo lui, nessuno può offrirla questa bevuta di fiele. E allora Cesare e Nicola, un Renato Carpentieri enorme e uno Stefano Dionisi sempre più bello, sempre più segnato, sempre più intenso, si trovano a fare i conti, quelli di una vita intera. E Cesare non può più scappare di fronte ai demoni che ha creato e che ormai è troppo tardi per riparare.
Ma è un film con la speranza dentro, Ride. Perché il conto lo chiede anche il piccolo Bruno a Carolina. E lei sì, lei ancora ce l’ha la possibilità di essere una madre vera, non da spot pubblicitario. Lei, con la sua asciutta sincerità, con il suo dolore inesploso, con la veridicità con cui si parlerebbe a un adulto, il suo conto lo paga subito, e corre ai ripari. Ci mette l’ombrello. In più di una scena madre edificante, perché il film sta tutto su di lei.
Ride è un film delicato
Sono in molti a classificare Valerio Mastandrea come il romano un po’ cialtrone, magari rude e poco profondo. Invece l’artista e l’osservatore sensibile, quello che guarda il mondo come facevano i suoi stessi maestri, con lo sguardo indulgente di chi non vuole giudicare bensì comprendere, esce tutto allo scoperto in Ride. Un film delicato, con una soundtrack list strepitosa. Ma nessuna canzone viene lasciata fino alla coda. Vengono tutte interrotte all’improvviso, “di botto” nel modo che fa male alle orecchie e al cuore. Proprio come è avvenuta la morte di Mauro. Tutte, tranne l’ultima, quella di Ivan Graziani, che Mauro cantava stonato alla sua bella moglie. Quella dentro cui è racchiuso il sentimento. Quella che lo fa esplodere, finalmente. Perché tutti abbiamo il diritto di stare male.
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