La risata piena di Pierfrancesco Favino, mentre prendiamo un caffè alla fine della conferenza stampa di ACAB. Gli dico: “Visto che fai Pinelli in Romanzo di una strage e un celerino bastardo in ACAB, nel film di Giordana che fai, ti spingi da solo fuori dalla finestra?”. Battuta feroce, cinica, politicamente scorretta. Un po’ alla Spinoza.it. Ma che segnala come, nel giro di un mese e mezzo, il cinema entri a gamba tesa nella zona oscura del nostro paese, come riesca, in poche settimane a guardare ciò che in tanti anni non ha neanche tentato di affrontare. I celerini “da stadio” di Sollima, l’atroce macelleria della Diaz di Vicari, Giordana che racconta Calabresi, Piazza Fontana, Pinelli e un’Italia sconvolta dalle stragi di stato.
Tutto quello che non abbiamo mai voluto sapere davvero, tutto quello che viene occultato dal Potere. Le sospensioni della democrazia più gravi del dopoguerra italiano, gli angoli più bui della nostra storia, più o meno recente. Anni e mani di piombo, bombe e tolfa, un solo, unico filo rosso, anzi nero, a legare i tre film: uno Stato che dovrebbe proteggere i propri cittadini e che invece li massacra. Guardandoli un po’ da lontano, i tre film, parafrasando Giovanni Falcone – che lo diceva sulla mafia – sembrano inquadrare i tre livelli di uno stesso meccanismo.
AcAB- All cop Are BAstArds Il film di Stefano Sollima individua il primo livello
La base di questo ideale processo politico-cinematografico. Il regista che insieme al suo ottimo team di sceneggiatori (Cesarano-PetronioValenti) ha rivoluzionato il mondo delle serie televisive italiane – il loro Romanzo Criminale è stato rivoluzionario per penetrazione nell’immaginario e sovvertimento di schemi narrativi e “morali”- ci prova anche al cinema. In un paese in cui la divisa veste i panni eroici del Joe Petrosino di Beppe Fiorello o bonari del Maresciallo Rocca di Proietti, in una TV in cui rivoluzionario è il caustico Montalbano – che, non a caso, la divisa non se la mette mai – che almeno una frase di amarezza verso i colleghi per i fatti di Genova 2001 la dice, ecco che arrivano i celerini bastardi. In un’Italia che su piccolo e grande schermo è abituata ad accarezzare tonache, divise e simili, all’esordio Sollima decide di raccontare gli Inglorious Basterds che hanno come “missione” il massacrare chi mette a repentaglio “l’ordine”: siano essi ultrà, manifestanti, immigrati, estremisti. La mano violenta del Potere, il corpo speciale dietro il quale si nasconde chi non vuole sporcarsi le mani, il reparto mobile. Qualcosa di estraneo e temuto persino all’interno delle forze dell’ordine, con la sua (non) morale ferrea ed estrema, il suo senso dello stato malato, il cameratismo esasperato ed esasperante. Sollima sembra il nostro Kassovitz: solo che L’odio, qui, lo vediamo dagli occhi di chi porta il casco con la visiera.
Non c’è Pasolini in ACAB
Non c’è comprensione per la retorica del guerriero proletario per pochi euro, piuttosto c’è una visione precisa sull’emarginazione e sul conflitto sociale: chi mette su scudo e tolfa, spesso, condivide più di quanto vorrebbe con chi si tatua, sul collo, la scritta A.C.A.B. All Cops Are Bastards, appunto. Il cineasta cerca di umanizzare queste persone, di non renderle “speciali”, eccezioni alla regola. Il nazismo poté diffondersi grazie alle persone normali, la violenza istituzionalizzata è un’epidemia sempre più aggressiva per lo stesso motivo. Non vi lascerà tranquilli questo film, proprio perché porta sulla terra quello che vorremmo relegare nella voce “perversioni del Sistema”.
DIAZ – Don’t Clean Up This Blood
Un capolavoro, il film italiano più bello degli ultimi trent’anni. Senza se e senza ma. E lo è perché tira in ballo la Diaz, il più grande, doloroso scandalo che ci ha colpiti negli ultimi anni. Luglio 2001, Daniele Vicari entra dentro quella scuola in cui lo Stato italiano e la sua mano armata dichiara guerra alla società civile, al paese che dissente, alle generazioni che vorrebbero cambiare il mondo. Ha sete di vendetta chi ha già ammazzato un ragazzo, Carlo Giuliani, vuole “mettere a posto” chi si è azzardato a dire che è tutto sbagliato e tutto da rifare. In quel G8 a Genova, l’uno percento vuole ancora fottere il novantanove percento. Che però non ci sta. Eccolo il “secondo livello”. Vicari ci fa sentire le botte addosso (quello che Sollima non ha fatto, fermandosi ai riti dei violenti, ai loro vezzi), l’ingiustizia della tortura sistematica, il Cile di Pinochet nell’Italia del Terzo Millennio. Ci ricorda, con pochi intuitivi fotogrammi, che quella follia, che quella repressione organizzata e feroce, che Diaz e Bolzaneto, sono figli di una strategia precisa.
E non solo italiana, ma europea: in un mondo in cui un qualsiasi presunto assassino, se in terra “straniera”, viene difeso dal proprio governo, scopriamo che tutti i paesi del continente sopportarono ogni sopruso. Nessuno si oppose ai pestaggi, al dolore inflitto ai propri cittadini, in un’Europa già unita e libera nella circolazione di persone e merci venne persino permesso un espatrio forzato, al Brennero. Se Sollima si ferma all’autogestione del reparto mobile, Vicari annoda i fili, mostra i celerini come schegge impazzite ma anche burattini, mostra uno Stato con le mani legate da se stesso, dai suoi rappresentanti schiavi di una visione della democrazia a responsabilità limitata. Un paese abituato ad avere una doppia struttura – dalla P2 alle infiltrazioni mafiose, dai servizi deviati a Gladio sono tanti, troppi gli esempi – qui mostra la sua vera natura: quella di un autoritarismo fascista che esplode ogni qualvolta la democrazia, il pluralismo prendono respiro, guardano lontano, cercano di cambiare le cose. Vicari fotografa tutto ciò con un racconto doloroso, potentissimo, terribilmente meraviglioso. E nell’ultimo primo piano c’è tutto l’abisso in cui siamo precipitati e il sospetto che la sconfitta di chi voleva, come noi, un mondo diverso e possibile, sia definitiva.
Romanzo di una strage
Quello di Marco Tullio Giordana è il racconto più lontano nel tempo. Piazza Fontana, una strage che ancora sanguina per l’atrocità dell’evento e per le ingiustizie perpetrate nella ricerca delle presunte verità su essa. Le contraddizioni di quegli anni nascono e crescono in quell’alveo fangoso fatto di colpe, responsabilità, di uno Stato deviato e della lotta armata clandestina. Tutti ne rimarranno vittime, da Pinelli con il suo malore attivo, a Calabresi, che da lì fu chiamato “commissario Finestra”. Da una possibile classe dirigente che divenne invece nemica del proprio paese e di se stessa.
Come il terzo livello della mafia, anche questo terzo livello è il più pericoloso e il meno conosciuto, il più impenetrabile e il più implacabile. Quello Stato infiltrato non sembra diverso dal nostro, quella Piazza Fontana e l’humus che la provocò sembrano francamente fin troppo vicini alla nostra attualità. E le trame sono così intricate da inquinare tutto, da rendere impossibile la divisione tra vittime e carnefici, tra utili idioti e pericolosi sanguinari, tra buoni e cattivi. Giordana riprova quello che a molti colleghi è costato tanto: con il terrorismo, in modi diversi, ci si sono bruciati in tanti. La Labate, Bellocchio, Soavi, De Maria in modi diversi, ma hanno subito in maniera forte le conseguenze di scelte più o meno coraggiose, più o meno difficili: chi facendo fatica a dirigere ancora, chi venendo scippato di un premio sacrosanto, chi rimanendo relegato ai margini, chi con un linciaggio preventivo che ne ha condizionato, sicuramente, il racconto (cosa successa a Vicari, oggetto di critiche preventive che, però, non hanno spostato le sue intenzioni di un millimetro). Forse il cinema italiano sta cambiando, forse un’altra epoca si sta aprendo, riavremo i Petri e i Rosi, riavremo Volonté. Poche settimane per saperlo. Sperando di essere in grado di sopportarli e supportarli, sperando che la rinascita non venga soffocata.