“Se lo costruisci, lui tornerà”. Questo diceva la voce del campo di granturco a un incredulo Ray Kinsella all’inizio di Field of Dreams, arrivato poi in Italia con il titolo L’uomo dei sogni. Uscito il 21 aprile del 1989, è un film che in trent’anni è diventato più di un cult, grazie a quell’aura magica che da sempre lo accompagna. Ma soprattutto perché è un prodotto confezionato in maniera perfetta, nel migliore stile del cinema classico americano.
L’uomo dei sogni è tratto dal romanzo Shoeless Joe, di William Kinsella. In Italia è stato pubblicato dieci anni fa, un altro piccolo anniversario, da una più che meritevole casa editrice indipendente, la 66thand2nd, che vi consiglio di tenere molto d’occhio se amata le storie di sport. Shoeless Joe parla di baseball, un oggetto misterioso per il lettore italiano medio in generale, figuriamoci in un paese in cui tutto viene sacrificato sul grande altare del calcio. Ma al contrario di quanto facciamo noi con il pallone, gli americani su quello del baseball hanno invece costruito un’epica fondante.
Quella del baseball è molto più di una semplice narrazione sportiva, è una grande metafora della nascita di una nazione. Non a caso i più grandi scrittori del Novecento letterario americano hanno scritto capolavori grazie al baseball. Underworld di Don DeLillo racconta l’America attraverso una pallina da baseball. Philip Roth lo fa ne Il grande romanzo americano, rieditato da Einaudi cinque anni fa dopo essere stato a lungo dimenticato. E se volete davvero essere sorpresi, recuperate nel catalogo Fanucci Il gioco di Henry, giustamente semplificato titolo italiano di The Universal Baseball Association Inc,.J. Henry Waugh, Prop. Un piccolo capolavoro di uno scrittore assolutamente da rivalutare come Robert Coover.
L’uomo dei sogni arrivò sugli schermi italiani in sordina e con grande ritardo, nonostante fosse stato candidato all’Oscar come Miglior film nel 1990. Con grande sorpresa di molti anche negli Stati Uniti, sebbene in quel periodo stesse nascendo la stella di Kevin Costner, che con il baseball aveva già avuto a che fare in Bull Durham, dello specialista in cinema sportivo Ron Shelton, che avrebbe avuto ancora tanto da raccontare in seguito. Il regista Phil Alden Robinson era al suo secondo film, dopo il non memorabile esordio di Il pomo della discordia, veicolo per la giovane star in ascesa Patrick Dempsey. Ebbe però una fortuna che a molti cineasti accade solo una volta in carriera: avere tutti gli ingredienti per un film di successo perfettamente equilibrati.
Di Costner abbiamo detto, ma non sarebbe bastato lui da solo per rendere L’uomo dei sogni un film immortale. Amy Madigan nei panni di sua moglie è perfetta, come il personaggio che interpreta, la donna che ogni uomo vorrebbe avere al suo fianco. Così come Ray è in fondo il sognatore che ogni donna vorrebbe scovare nel suo compagno. Ray Liotta è iconico nella sua tenuta dei Chicago White Sox del 1919, James Earl Jones amato dal mondo intero, il cameo di Burt Lancaster nei panni di Moonlight Graham uno dei momenti di cinema americano più alti degli ultimi trent’anni. Ma soprattutto, c’è la Storia e la leggenda.
La storia è quella degli Otto Uomini Fuori dei Chicago White Sox del 1919, la squadra più forte di tutti i tempi, che uccise il sogno americano truccando le World Series di quell’anno. Si erano venduti qualcosa che andava oltre il sacro. Sarebbero stati dannati per l’eternità. Anche gli innocenti. Come Shoeless Joe Jackson. Il più grande giocatore che abbia mai corso su un diamante. E che fu costretto a non giocare mai più.
“Dio quanto amo questo sport. Avrei giocato anche gratis”.
Lo diceva Shoeless Joe, appena tornato sul campo dei sogni. Probabilmente è quello che pensa spesso anche Lionel Andrés Messi Cuccittini, che tra non molto festeggerà il suo trentaduesimo anniversario. Il mondo lo conosce come Leo Messi. Il calcio gli ha salvato la vita, nel vero senso della parola. In cambio lui è diventato il più grande della sua generazione. Lo ha dimostrato una volta di più nella semifinale di andata della Champions League 2019. Barcellona – Liverpool è una di quelle partite destinate a entrare nella storia, a dispetto del risultato, un 3-0 forse troppo severo per i Red Devils. Ma anche una squadra eccezionale come quella di Jurgen Klopp non può nulla quando è arrivato il momento della leggenda.
E come tutte le storie degne di essere raccontate, anche lui ha la sua croce. Leo Messi ha vinto cinque volte il Pallone d’Oro, con il Barcellona ha alzato tutti i trofei possibili, ma sa che tutto questo servirà a poco. Gli manca la Coppa del Mondo, quella che un altro argentino ha portato a Buenos Aires diventando D10S. Lui, che sarà sempre il più grande di tutti, su cui si sono scritte canzoni, libri e poemi epici, come i grandi eroi del tempo che fu.
Leo Messi lo sa che non sarà mai come Lui. Ma in quel secondo e mezzo di parabola che ha portato il pallone dal suo piede a quell’angolo sublime, alle spalle di quello che forse è il portiere più forte del mondo, Shoeless Leo Messi ha pensato: “Questo è il Paradiso?”. No, Leo. È l’Iowa. Anche se assomiglia tanto al Nou Camp. E su quel campo sei tu a fare avverare i sogni.