Guardare al passato nel cinema è una qualità. Ce l’hanno tutti i grandi registi, da Steven Spielberg a Martin Scorsese, da Aki Kaurismaki a John Carpenter. E ce l’ha anche George Clooney, che sebbene sia solo al quarto film dietro la macchina da presa, ha già dimostrato di avere dei numeri non indifferenti, soprattutto grazie alle lezioni apprese dal cinema impegnato degli anni Sessanta e Settanta di cui Le idi di marzo è figlio naturale.
Tratto dalla piéce Farragut North di Beau Willimon, Le idi di marzo è un film sul potere e sull’etica come non se ne vedevano da tempo e che trae ispirazione da opere alte come Tutti gli uomini del Re, quello classico con Broderick Crawford e diretto da Robert Rossen ovviamente, o meglio ancora L’amaro sapore del potere di Franklin J. Schaffner.
Il giovane e talentuoso responsabile delle pubbliche relazioni. Il governatore illuminato che corre per le primarie democratiche. Il vaso di Pandora che si apre e da cui esce non solo tutto ciò che è la politica, ma soprattutto quello che si è disposti a perdere per il potere e il successo.
Clooney racconta tutto questo con intelligenza e stile asciutto, lasciando agli attori il compito di arricchire un copione già di per sé notevole. Ryan Gosling nei panni del giovane idealista alle prese con la realtà è da applausi, ma ancora di più lo sono Philip Seymour Hoffman e Paul Giamatti, vecchie volpi della politica i cui personaggi spiegano allo spettatore molto più di tante pagine di quotidiano cosa succede nei corridoi del potere.
Clooney si ritaglia il ruolo del candidato che dice cose giuste, che ha idee quasi sovversive e che potrebbe essere il presidente della salvezza degli Stati Uniti. Scoprire chi è la persona giusta mette tutti di fronte a scelte che preferiremmo non fare.