“What’s my name? Say It. What’s my name?” Lo ripeté decine di volte, mentre sul ring demoliva fisicamente e psicologicamente un avversario che non aveva avuto l’intelligenza e l’umiltà di riconoscere che di lì a pochi giorni avrebbe incontrato ciò che lui non sarebbe mai stato. Una divinità, perché solo chi è stato toccato da qualcosa che non è di questo mondo avrebbe potuto regalare tante emozioni, tale poesia in quello che è un gesto di violenza inaudita, significati così profondi nel desiderare una vittoria che non sarebbe mai stata solo un combattimento in più da mettere a referto.
What’s my name: Muhammad Ali, sarebbe bastato questo a Ernie Terrell, dire queste due parole, per non essere ricordato come una vittima designata dell’orgoglio del più grande, quella sera del 6 febbraio 1967 all’Astrodome di Houston. Non piacque l’atteggiamento di Ali all’opinione pubblica, ma amare essere odiato faceva parte del personaggio. E poi sapeva che non si poteva odiare un pugile veloce come una farfalla e pungente come un’ape. Uno che la vita che ha avuto non se l’è conquistata solo a suon di pugni. Proprio no.
Anche se è proprio di questo che preferisce parlare Antoine Fuqua, qui nell’inedita veste di documentarista, in What’s My Name: Muhammad Ali, quasi tre ore, prodotte da HBO, in onda il 21 giugno alle 21:15 su Sky Arte (e in replica nei giorni successivi, quindi seguite la programmazione se lo perdete in prima serata) in cui si racconta quasi esclusivamente la parabola sportiva dell’uomo nato come Cassius Clay e che cambio il suo nome quando aderì alla Nation of Islam di Elijah Muhammad. Storia anche quella che viene appena toccata, così come la condanna a seguito del rifiuto ad andare in Vietnam e la conseguente squalifica. Solo cose che possono succedere, a chi crede nelle proprie convinzioni. Storie che sono state raccontate altrove, in maniera specifica e dettagliata. Paradossalmente, quello di cui ci si dimentica è che Ali è stato l’ultimo vero grande campione di un pugilato che ha iniziato a morire lentamente proprio dopo il suo ultimo incontro.
Dalla prima palestra e I primi match, alle Olimpiadi di Roma del 1960, dove Clay vinse la medaglia d’oro lasciando il mondo a bocca aperta per la modernità e la naturalezza della sua boxe, fino alla irripetibile carriera da professionista, indipendentemente dallo score finale, comunque straordinario, con 56 vittorie e cinque sole sconfitte. La leggenda di Ali nasce dall’avere combattuto in momento in cui I pesi massimi erano affolati da pugili eccezionali, da Sonny Liston a Joe Frazier, Ken Norton e, naturalmente George Foreman, forse dopo di lui il più forte dell’era moderna. Ali li incontrò e li battè tutti, sempre però facendo in modo che la leggenda venisse a lui. Ed è proprio questo che si respira durante tutta la visione di What’s My Name. Perchè Ali è un personaggio della frontiera di John Ford, uno per cui si sarebbe comunque raccontata la leggenda, con la differenza che lui se la costruisce da solo, pezzo per pezzo. E Fuqua la racconta, umilmente e intelligentemente, senza mettersi a confronto con l’Ali di Michael Mann, nè tantomeno con quello davvero immenso di Leon Gast e del suo When We Were Kings, cronaca mitologica della trasferta a Kinshasa per la Rumble in the Jungle, la battaglia contro Foreman, il più grande match della storia della boxe.
Fa bene Fuqua, perché fuggendo la retorica ci consegna quello che da troppo tempo mancava. Un affresco esaustivo della carriera di uno sportivo immenso. Alla fine, naturalmente, si fatica a trattenere le lacrime. E va bene così. L’importante è che ricordiate il suo nome. Era Muhammad Ali.