Considerato uno dei massimi esperti italiani nel campo dei fumetti e dell’animazione, Luca Raffaelli è un nome noto per ogni appassionato di fumetto che si rispetti. Il suo libro, Le anime disegnate, che racchiude una storia del cinema d’animazione suddivisa in tre macro categorie filosofiche, è ormai arrivato alla terza edizione. Un risultato senza precedenti per un saggio del genere in Italia. Luca Raffaelli ha scritto le prefazioni ai bei volumi di fumetti che moltissimi italiani hanno nelle loro librerie, usciti in allegato con quotidiani o periodici del gruppo Repubblica. Un vero e proprio divulgatore, un educatore del gusto e delle lettura di un fumetto, sono in molti ad averlo letto e amato senza nemmeno saperlo.
Ma da diversi anni, Luca Raffaelli si occupa anche di incontri e festival: oltre ad averne organizzati diversi e in vari luoghi, partecipa a giurie, incontri, masterclass, organizza mostre e altri eventi formativi. Noi lo abbiamo incontrato al Sardinia Film Festival, dove era in giuria per decretare il miglior cortometraggio d’animazione. Una persona piacevolissima, oltre che molto preparata, naturlamente, in grado di semplificare i concetti più complessi per meglio farli comprendere a chi lo ascolta.
Diciamo la verità: è impossibile racchiudere la storia del cinema di animazione in un solo volume. Come hai selezionato le parti da includere?
Ho parlato delle tre filosofie basilari del cinema d’animazione classiche. La filosofia disneyana, la filosofia antidisneyana, e la filosofia giapponese. Quella disneyana è quella in cui lo spettatore si annulla nella storia, la vive in prima persona e si identifica completamente in ciò che sta accadendo. Usa una serie di personaggi, di cui uno molto negativo che entra in un mondo sostanzialmente buono, per rovinarlo. Per fortuna nella filosofia disneyana si prevede quasi sempre un lieto fine, per cui il personaggio negativo viene annientato e tutto ritorna alla normalità. Nella filosofia antidisneyana non esiste un mondo che sia buono di per sé: non ci sono nemmeno i buoni e i cattivi, ma ci sono i furbi e i fessi, c’è il potere e c’è chi lo attacca. Si va da Bugs Bunny e Silvestro, fino ai Simpson e fino a BoJack Horseman. Infine c’è la filosofia giapponese che si pone il problema della vita del personaggio e si preoccupa che esprima totalmente se stesso all’interno di mondi e culture completamente diversi. Abbiamo avuto bambini in enorme difficoltà nei confronti del mondo adulto, adulti che si sono trovati a dover difendere il mondo da presenze ostili o dalla possibilità di avere una propria personalità all’interno di una società che li vuole costringere a essere ciò che lei vuole.
Nel tuo libro emerge una dicotomia tra l’esprimere il fuori e il dentro: fuori è ciò che accade, dentro è come si vive ciò che accade. Alla fine, il cartoon giapponese dice questo perché l’uomo medio giapponese non può esprimere apertamente ciò che sente. Quando il mondo dell’animazione supplisce alle mancanze della realtà?
Nemmeno noi occidentali possiamo esprimerci. Il cartone giapponese si è permesso di parlare al mondo di qualcosa che non era consentito dire. Questa è la cosa straordinaria, altrimenti sarebbe rimasto all’interno dei suoi stessi confini. La tragedia di essere bambini oppure di essere adulti condizionati dalla cultura e dalle regole del mondo è un problema globale. Abbiamo tutti una marea di regole da dover sopportare e continuamente facciamo i conti con quello che siamo e le regole che ci vengono imposte in famiglia, a scuola, tra gli amici… Il cartoon giapponese parla della possibilità di poter scegliere del nostro destino o di sottostare alla regole della comunità. Che poi ci sono regole che vanno rispettate: non si deve uccidere, non si deve rubare… Il resto rientra all’interno di un problema filosofico che poneva già Antigone, che però certo cinema d’animazione americano non prendeva minimamente in considerazione, come se le personalità dei bambini e degli adulti fossero completamente asettiche.
Il tuo studio prende in analisi principalmente i lungometraggi o la serialità?
Il mio studio prende in analisi innanzitutto me stesso. Per esempio tutto il progetto del libro parte da un mio errore. Per la prima volta andai a un festival dell’animazione in Giappone a ventisei anni. Era presente Osamu Tezuka e feci un’intervista orrenda, non sapendo nulla di lui. Non conoscevo l’animazione giapponese e l’avevo malgiudicata, esattamente come tutti in Occidente. La trovavo una cosa brutta, ero uscito dalla scuola, avevo altri interessi e non avevo prestato attenzione. Scoprendo che non erano realizzati al computer, ma da animatori che arrivavano in bicicletta e che lavoravano di matita come dei veri work-men, che c’erano centinaia e centinaia di ragazzi italiani che mandavano lettere dicendo che volevano andare in Giappone a disegnare… ha cambiato la mia vita. Mi resi conto che non avevo capito l’importanza del cartone giapponese, di volerlo studiare e che era interessante compararlo alla filosofia occidentale. Di Disney parlo anche dei cortometraggi, e poi prendo per l’anti Disney dai corti della Warner alle serie dei Simpson, parlo di Hanna e Barbera, della loro capacità di adattarsi. Per il Giappone parto dalle serie televisive perché sono state quelle che hanno fatto nascere davvero la filosofia del cartone giapponese. Non posso poi non citare Akira o i film di Miyazaki, Isao Takahata, ecc. Credo che gran parte del successo del libro derivi dal fatto che questa ricerca la faccio insieme al lettore e non do nulla per scontato. Vado a cercare le cose, mi intrufolo negli studi…
Hai avuto ruoli importanti all’interno dei festival, ne hai organizzati tanti e oggi siamo al Sardinia Film Festival dove sei giurato. Che cosa ti torna dal contatto con i lettori e gli spettatori?
Sono contentissimo quando mi invitano ai festival perché vedo cose che non avrei modo di vedere altrimenti, stare dietro a tutto sarebbe complicatissimo, le selezioni mi aiutano. Qui al Sardinia Film Festival ho visto tante cose nuove, che mi mancavano. Mi interessa vedere le scelte dei curatori, che sono sempre molto diverse tra loro. Mi piacciono particolarmente i festival che permettono incontri con autori e addetti ai lavori, che permettono di avere stimoli ai quali non si era mai pensato. Come qui che ho tenuto una masterclass dalla quale sono nate domande interessanti con gli spettatori.
L’altra tua grande passione è il fumetto, prima c’era grande rispetto, poi è diventato roba da ragazzini. Oggi c’è un grande ritorno del fumetto visto come forma d’arte. Tu sei uno dei rari critici specializzati in fumetto. Quanto è importante la creazione di un pensiero critico nei confronti della nona arte?
Non ho mai fatto un altro lavoro, ho avuto la fortuna di occuparmi sempre di questo. Da quando il fumetto è diventato parte della cultura alta – il fumetto popolare da edicola sta vivendo un momento di grande difficoltà, il fumetto oggi è quello che viene distribuito in libreria – molta gente sta iniziando a parlare di fumetti. Molti chiamano come parte in causa registi, autori stessi. Addirittura l’ultimo autore di fumetti è più importante di uno che li studia da una vita. Ho iniziato a lavorare nel fumetto più di quaranta anni fa, con la rivista L’urlo che chiamava gli autori gridando di alzarsi e affermare la loro professionalità. Allora tutte le storie di Topolino erano firmate da Walt Disney, non c’era l’autore della singola storia. Noi abbiamo lottato perché fossero pubblicati tutti i nomi degli autori, sempre, anche negli albi Bonelli. Abbiamo vinto e la nostra vittoria, paradossalmente, ci ha declassato.
E invece è difficilissimo: per potere recensire un albo qualunque bisogna saper discernere di inquadratura, di struttura, di disegno, inchiostrazione, lettering, solo per citare alcuni elementi.
Ho realizzato una mostra su cinema e fumetto all’interno del Museo del Cinema che ha avuto un grande successo. Mi sono permesso di teorizzare la superiorità del fumetto rispetto al linguaggio cinema. Credo che ci sia una consapevolezza maggiore richiesta al lettore di fumetti rispetto allo spettatore di cinema. Il lettore viene chiamato a riempire di emozioni, di suoni tutto quello che il fumetto di dà come suggestione, ma che non ti fornisce realmente. Come diceva McLuhan, linguaggio caldo e linguaggio freddo. Il fumetto è linguaggio freddissimo. La gente legge meno fumetti perché leggere un fumetto è molto più difficile, è un’operazione complicatissima. Con il fumetto bisogna concentrarsi. È la dimostrazione della pigrizia di chi lo dice e della grandezza del linguaggio fumetto.
Dentro quali fumetti ti sei perso per primo?
Nel Corriere dei Piccoli, in Ken Parker, in Lucky Luke, in Corto Maltese, nei fumetti di Buzzelli, in certe pagine di Crepax, solo per dirne alcuni. Da bambino vedevo nel fumetto un linguaggio rivoluzionario e da difendere proprio perché bistrattato da tutti. Vedevo moltissimo cinema, ma era come se il fumetto mi dicesse che aveva più bisogno di me, che avrei dovuto impegnarmi per far valere le sue ragioni.
E come ogni critico che si rispetti, sei onnivoro…
Sì, per parlare di qualcosa, bisogna conoscere il resto del mondo. Se non leggi testi di psicologia, di arte, di cinema o altro… il fumetto che leggiamo è parte di un mondo, fatto di politica, di gente che vive e che muore e tutto questo rientra nelle storie raccontate e nel come si raccontano. Se non le contestualizzi, non puoi giudicarle.