Durante gli anni Settanta molti autori iniziano a cercare nel pubblico deigiovani e dei giovanissimi una nuova fetta di mercato. Se in precedenza gli adolescenti erano raramente il target principale del cinema (e ancor più raramente erano al centro della narrazione filmica), ora si cerca l’ammicco e l’empatia con le nuove generazioni. Spielberg, con Lo squalo, e Lucas, prima con American Graffiti (che parlava di ragazzi) e poi con la saga di Guerre stellari (che parlava ai ragazzi), incassano miliardi e scatenano la caccia al pubblico più giovane. Animal House, fondamentale per lo sviluppo di una comicità consapevolmente bassa, fa il resto. Gli anni Ottanta sono segnati da film su e per ragazzini, in cui i turbamenti ormonali della pubertà si declinano nella lascivia giocosa e vagamente decerebrata di Porky’s o nelle varianti horror, derivate da quel saggio sulla crudeltà dell’adoscenza che è Carrie di Brian de Palma. Alla base di questi film c’è una matrice quasi inevitabile: la centralità della figura maschile all’interno della storia (da Risky Business a Wargames, fino alle varianti d’autore del Coppola di I ragazzi della 56° strada e Rusty il selvaggio).
A cambiare definitivamente i connotati di una possibile deriva grossolana ed erotomane ci pensa John Hughes, l’autore che plasma il genere, lo canonizza, lo rende – paradossalmente – adulto. Il suo primo film, Sixteen Candles, enuncia già nella prima scena il motore portante del suo cinema, e lo fa scegliendo una protagonista femminile. Molly Ringwald si sveglia il giorno del suo compleanno – i sedici anni, l’equivalente dei diciotto per un adolescente americano – ma la sua famiglia si dimentica di lei, presa in altre vicende. L’estraneità al mondo adulto è la cifra del cinema di Hughes, il suo grimaldello per poter capire davvero la diversità di una generazione.
Come scrive Jonathan Bernstein in Pretty in Pink – the Golden Age of teen Movies: “In questo decennio di divorzi e disfunzioni, gli adulti diventano il nemico”. La frattura tra i due mondi si manifesta in una completa incompatibilità: i genitori dei film di Hughes sono assenti, immaturi (o raggelati dalla crescita), incapaci, inaffidabili. La scuola quindi diventa l’unico teatro delle aspirazioni e dei conflitti e la vita reale dei suoi personaggi prende forma in assenza di figure adulte. La struttura favolistica si ripete – la ragazza bella ma ignorata, l’amico reietto in cerca di affermazione, l’oggetto del desiderio irraggiungibile – declinandosi però in romanzo di formazione. Non sono però veri e propri racconti di crescita perché il concetto di crescere è tratteggiato unicamente con toni cupi, se non ferocemente sarcastici. Gli adolescenti di Hughes non sono bambini cresciuti troppo in fretta né eterni fanciulli: sono consapevoli di vivere in un’età di mezzo, un limbo che rappresenta l’unico momento di purezza nell’arco di una vita.
Se in Sixteen Candles la famiglia borghese è ai limiti dell’anaffettività, essendo troppo impegnata nei preparativi del matrimonio della sorella (ancora un rito che descrive il passaggio all’età adulta, l’arrendersi al conformismo sacrificando sogni e purezza), in Pretty in Pink – che Hughes scrive e produce, affidando la regia a Howard Deutch – il padre abbandonato con cui vive Andie è uno smidollato capace di un amore inutile, tirato fuori dalla sua apatia solo dalla carica vitale della figlia. Qui alla distanza tra generazioni si aggiunge anche quella di classe sociale. Andie è una Cenerentola in cerca di un principe azzurro incastrato in un mondo di regole ferree di ferocia sovrumana, dettate da legami di casta che discendono di padre in figlio, rifiutando la libertà dell’adolescenza. I ripugnanti ricchi di Pretty in Pink sono esattamente come i loro genitori, Andie invece – nonostante l’amore filiale – riesce a rifiutare, se non a riscrivere, la figura del padre.
Tra questi due film, abitati da un femminile allo stesso tempo languido e ferreo, si incastra Breakfast Club, che resta il manifesto teorico del cinema di Hughes. Cinque ragazzi, ridotti dal conformismo degli adulti a semplici figurine, simboli di un’adolescenza trattata con aliena superficialità, riescono nel corso di una giornata ad andare oltre le divisioni – sociali, culturali, caratteriali – per riconquistare una dignità altra, una coesione di forze inconoscibili che viene dalla sincerità e dal rispetto, dalla conoscenza dell’altro e dal confronto/scontro che si innesca. Concetti incomprensibili per chi è già dall’altra parte della vita perché “quando si cresce, il cuore muore”. Un’idea sussurrata con la rabbia disperata di chi sa di non poter sfuggire a una maledizione. Il cinema di Hughes ha saputo descrivere con lirismo ribelle e non consolatorio le aspirazioni di una generazione perduta per cui il passato non è più maestro e il futuro disegna un gorgo di conformismo da cui sembra impossibile fuggire.