Bologna, una bollente mattina di giugno alla Cineteca di Bologna, durante l’edizione 2010 del Biografilm Festival. Charlie Kaufman, premio Oscar per Eternal Sunshine of the Spotless Mind e autore di sceneggiature straordinarie come Essere John Malkovich e Synecdoche, suo esordio alla regia, mi sta aspettando per rispondere alle mie domande. due sere prima seduti a cena allo stesso tavolo, avevo incominciato a studiare questo signore timido, riservato, dallo sguardo perennemente sognante, perso a inseguire storie e pensieri che mette poi sulla carta, cercando di raccontare gli esseri umani attraverso le più potenti emozioni.
L’amore, la morte, il desiderio, l’ambizione: il mondo di Kaufman è fatto di mezzi piani e di tunnel mentali, di ricordi da cancellare e altri da inventare, tutti elementi che messi insieme costruiscono la sua personalissima visione della vita. Una condizione, quella del vivere, che Kaufman affronta catarticamente attraverso il suo lavoro, riversando sulla pagine le mille idiosincrasie che quotidianamente lo accompagnano e che ha voluto condividere in questa lunga e affascinante conversazione.
Mr. Kaufman, partiamo dalle basi: storie e personaggi…
Sono elementi entrambi molto importanti per me, ci lavoro molto. Qualche volta lavoro su delle fonti, come mi è successo con Adaptation, molto più spesso su delle idee e sulle identità dei personaggi che racconto.
Quanto lavora sullo sviluppo di una sceneggiatura di solito?
Synecdoche mi ha preso due anni di lavoro solo per la scrittura. Mi ci vuole molto tempo perchè mi piace che il mio lavoro sia onesto, è la cosa più importante per me.
Lavora su una struttura predefinita o preferisce lasciar fluire la scrittura liberamente?
Non ho un metodo, sono sempre molto insicuro quando inizio una nuova storia e mi ci vuole un po’ per tranquillizzarmi. È più produttivo aspettare piuttosto che cercare o forzare un’idea che non c’è. Nell’ultima sceneggiatura, che si intitola per ora Tentative, mi sono trovato in difficoltà, perchè pensavo che non sarebbe venuta come volevo, ma alla fine ce l’ho fatta, anche se ci ho messo 15 mesi. Finisco sempre con lo stare in situazioni che non mi piacciono, ma che mi aiutano ad andare avanti con il lavoro. In genere, comunque, parto dagli avvenimenti che accadono al protagonista della storia e lascio che mi portino verso un finale che si trovi quasi da solo, senza che io possa deciderlo.
Un’insicurezza che l’ha portata anche a intuizioni geniali quando si è trovato in difficoltà, come in Adaptation…
Credo che Adaptation sia stato rischioso dal punto di vista professionale, ma non sapevo cos’altro fare in quel momento e quella era l’unica idea che mi entusiasmasse. All’epoca era stato prodotto solo uno dei miei film, quindi poteva sembrare arrogante mettere me al centro della storia, ma l’elemento autobiografico mi sembrava la maniera migliore per raccontarla. Quello che capita al personaggio di Nicolas Cage è quello che è capitato a me, ma non volevo comunque renderlo troppo specifico.
Ci sono molti elementi ricorrenti nelle sue storie. La contrapposizione tra sogno e realtà è uno di questi…
È vero, quando inizio a scrivere parto sempre da una realtà forte in cui gli elementi surreali possano sempre servire di supporto e penso che questo processo sia molto efficace.
Altrettanto importanti sono tempo e spazio e non solo nel suo lavoro, mi sembra…
Nella mia vita ho pensato spesso ai concetti di tempo e spazio, ma non ho mai realmente riflettuto su come questi due elementi abbiano influenzato le mie storie. Quello che so per certo è che quando inizio ad approcciarmi a un nuovo progetto, cerco di inserirli in una struttura emozionale coerente. In Synecdoche, per esempio, Caden, il personaggio interpretato da Philip Seymour Hoffman, vive in una situazione che ho sperimentato nella mia vita, ovviamente in forma molto minore: invecchiando percepisce il tempo in maniera sempre più veloce, perdendo interi anni, una condizione umana che ho cercato di ricreare con dei lunghi salti temporali all’interno della narrazione cinematografica, senza dare però una cronologia precisa nè una quantificazione temporale.
A proposito di Synecdoche, è stato il suo primo film da regista. Non dev’essere stato facile concentrare in poche settimane di riprese il lungo lavoro che ripone nella scrittura delle sue sceneggiature…
Dirigere è un mestiere molto differente rispetto alla scrittura che ti costringe a confrontarti continuamente con problemi di ordine pratico, ma questo è un fatto, comune a ogni regista. Quello che ho potuto avere in più nel dirigere una mia storia è stato mantenerne l’intensità dalla fase creativa a quella realizzativa. Certamente non posso paragonarmi a un regista navigato e le mie carenze tecniche e di esperienza sul set sono parte integrante del film, ma non c’è niente di disonesto nelle scelte che ho fatto per Synecdoche. Possono essere state limitate dal tempo che avevo a disposizione per le riprese, o dal cast che eravamo riusciti a mettere insieme, ma sono problemi con cui mi sono confrontato anche con gli altri registi e sono quasi tutti film che amo moltissimo. Ma il poter scegliere come raccontare mi ha permesso di mantenere quell’onestà nei confronti dello spettatore che mi impongo quando scrivo. Almeno in teoria. Ha senso quello che ho detto?
Assolutamente. Ha accennato agli altri registi con cui ha lavorato…
Ho fatto due film con Spike Jonze, due con Michel Gondry e uno con George Clooney. Con i primi due sono sempre riuscito ad avere una forte collaborazione, discutendo di quello che realmente volevo portare sullo schermo e quando ci sono stati dei problemi in questo senso abbiamo parlato e li abbiamo risolti.
Allora parliamo di loro. Partiamo da Spike Jonze…
Il primo film, Essere John Malkovich non ha comportato alcuna scelta da parte mia su Spike Jonze, è stato lui a scegliere il film. Ci siamo conosciuti dopo, ho visto i suoi lavori e ho pensato che poteva essere lui il regista giusto.
Con Michel Gondry sembra esserci un’affinità ancora più particolare…
Michel Gondry me lo ha presentato proprio Spike ed Eternal Sunshine of the Spotless Mind l’ho scritto avendo in mente Michel come regista, perchè abbiamo avuto l’idea insieme e l’abbiamo sviluppata insieme. È stata l’unica volta che mi è capitato di lavorare in questo modo.
Jonze e Gondry sono due grandissimi registi di videoclip. Mi viene spontaneo chiederle se quando scrive le sue storie le vengono ispirate anche dalla musica che ascolta.
No, mai, quando scrivo ho bisogno di silenzio assoluto, non ci riesco in altro modo. E comunque non penso mai alle musiche che potrebbero accompagnare la mia storia una volta portata sullo schermo. Per Synecdoche ho riflettuto sulla colonna sonora dopo avere montato il film e ho parlato a lungo con Jon Brion sul tipo di musiche che volevamo per il film. Era molto importante per me che le musiche fossero originali e si adattessero perfettamente a quanto accadesse sullo schermo, non sono assolutamente interessato all’uso di canzoni esistenti nei film, perché penso che forzino l’emotività dello spettatore. Nel film che ho appena finito di scrivere, invece, ci sono moltissime canzoni, che ho scritto io e che poi musicheremo in seguito. È un’esperienza assolutamente nuova per me, ma l’idea di approcciarmi a un film musicale mi stimolava molto.
Torniamo alle sue sceneggiature. È incredibile quanti livelli di lettura e di visione riesca a dare nello sviluppo narrativo dei suoi racconti…
Sono interessato alla densità della storia. Mi piace l’idea di rivedere un film e scoprire cose che non avevo colto o addirittura vederlo con occhi diversi, così è simile a una vita da osservare e mi permette di avere esperienze sempre nuove. Per me la vita è abbastanza complessa e confusa, cerco di non sviluppare i miei film in maniera lineare, ma di raccontarli nella maniera confusa con cui vedo la vita. Mi interessa molto lasciare al singolo spettatore il potersi rapportare al film a seconda delle sue esperienze, per questo mi piace dare molte sfaccettature alla storia. In questo modo due persone completamente diverse possono vivere il film sia in maniera assolutamente personale che condividerlo come esperienza.
Molti elementi dei suoi lasciano veramente stupiti e sono anche molto divertenti, come per esempio il settimo piano e mezzo di Essere John Malkovich. Come le è venuta quell’idea?
Non so dirti come mi sia venuta l’idea, so che era una cosa che mi piaceva e mi faceva ridere, mi divertiva l’idea che potesse esistere un mezzo piano segreto che nessuno conosceva, anche se non so esattamente perché mi piacesse.
Ci sono tanti elementi in Essere John Malkovich che ricordano Alice nel paese delle meraviglie…
Sì, assolutamente, ma tutto è virato in una versione molto depressiva, non c’è niente di fantastico come Lewis Carroll, è una realtà alternativa e triste.
I suoi personaggi sono degli adulti che non vogliono crescere, mentre Alice è una bambina che non accetta di crescere. Non mi sembra casuale…
Sono assolutamente d’accordo per il personaggio di Jim Carrey in Eternal Sunshine, assolutamente, lui preferisce farsi cancellare la memoria piuttosto che continuare a soffrire, proprio come farebbe un bambino, e in effetti anche John Cusack in Essere John Malkovich è disperato, la sua vita non sta andando da nessuna parte, è innamorato di una donna che non ha assolutamente alcun interesse nei suoi confronti, quindi in effetti diventare Malkovich è una sua via di fuga. Ma credo che tutto questo sia dovuto dal fatto che io stesso non ho mai accettato di essere un adulto, ma mi sento ancora un fanciullo, è una situazione costante per me. Anche qui a Bologna, l’altra sera quando siamo andati a cena fuori, sono stato molto bene, ma vi guardavo come un bambino guarda gli adulti, nonostante fossi probabilmente il più vecchio di tutto il tavolo. Dipende dalla mia timidezza, dal fatto che non parlando italiano non ero in grado di gestire bene la situazione e quindi la cosa mi metteva a disagio, ma è una sensazione che conosco bene, la vivo spesso, non è costante, ma dipende dal mio essere una persona per certi versi ancora molto immatura.
L’amore: cos’è per lei e per i suoi personaggi?
Credo che spesso l’amore sia essere visti, adorati, accettati, ma per me e per i miei personaggi è soprattutto un bisogno disperato di condividere una visione del mondo e della vita, una necessità assoluta della quale è difficile poter fare a meno.
Ultima domanda, stupida, ma che voglio farle da anni: perché John Malkovich?
Beh, è più divertente essere John Malkovich, non mi faceva ridere pensare che qualcuno volesse essere Tom Cruise. Al massimo posso considerare di voler essere Christopher Walken, che era l’altra possibilità nel caso John non accettasse. Ma Malkovich era molto più divertente.