Quando nel 1968 Charles Portis iniziò a pubblicare a puntate sul Saturday Evening Post il romanzo True Grit, il successo fu sensazionale e immediato tanto da convincere immediatamente i produttori di Hollywood a realizzare un film e affidare la parte del protagonista, lo sceriffo federale Rooster Cogburn, all’icona indiscutibile del cinema western, John Wayne. Il risultato fu Il Grinta, diretto dal veterano Henry Hathaway, che l’anno dopo permise a Wayne di coronare la sua carriera con la vittoria di un Oscar come miglior attore protagonista, il primo (e l’ultimo) della sua vita.
La storia è quella di Mattie Ross, una tredicenne a cui uccidono il padre, alla ricerca di vendetta più che di giustizia. L’intero romanzo di Portis è narrato in prima persona da Mattie, che ricorda in un lungo flashback le sue avventure, di quando era ancora una ragazzina indomita, dal carattere fiero e dalla inaudita testardaggine. Seguendo i canoni del western tradizionale, il film di Hathaway regala presto la centralità della storia al personaggio di Cogburn, vuoi per il fascino immortale e il carisma ormai mitico della figura di Wayne, vuoi perché la connotazione maschile del genere non permetteva eccessive deroghe. Mattie è di certo importante, ma viene in qualche modo adombrata dalla magniloquente icona del vecchio pistolero, eroe crepuscolare, statua ambulante della stessa storia del West.
È già in questo che la nuova versione del Grinta, realizzata da Joel ed Ethan Coen e uscita in America giusto in tempo per accaparrarsi una decina di nomination agli Oscar e per guadagnarsi un plauso critico quasi universale, si differenzia dal film precedente. Più che un remake in senso stretto, il film dei Coen sembra una rilettura del tutto nuova del romanzo, votata a recuperare lo spirito originale del libro, ricco di caustico umorismo (perfettamente compatibile con lo spirito ribelle e demistificatore dei due cineasti) e meno propenso alla celebrazione di valori ed eroismi ormai del tutto anacronistici.
La Mattie Ross contemporanea ha la faccia e il corpicino esile di Hailee Steinfeld, sguardo severo e determinato, mix felicissimo di grazia infantile, delicatezza femminile e sicurezza caratteriale da vera eroina protestante del XIX secolo. La scelta dell’attrice protagonista è una delle ragioni del successo del film: la storia attraverso Mattie
Decisamente meno bambinesca dell’interprete della versione del 1969 (Kim Darby, graziosa ma infantile e a tratti sottomessa alla caratura simbolica del Grinta/Wayne), ma dotata di un’innocenza di sguardo che appare a tratti scalfendo la durezza dell’etica della frontiera dalla connotazione crudele e prettamente maschile. Ethan Coen accosta Mattie all’Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll, “una ragazzina che si ritrova in un ambiente che potremmo tutt’ora definire quantomeno esotico”.
Ma alla violenza tutta immaginifica della fantasia si sostituisce la brutalità sanguinolenta di un West senza regole, dove la cattura di un assassino viene affidata a sceriffi che assomigliano ad avventurieri senza terra né legge. È così anche Rooster Cogburn, un vecchio cacciatore di taglie cui la modernità non ha cambiato l’intransigenza primitiva dei suoi valori, uno zelante killer su commissione i cui modi spicci non si piegano alle mutazioni della società che ha intorno. È uno sceriffo, il più bravo e il più spietato, e questo basta a Mattie per volerlo ingaggiare per vendicare suo padre nel proseguimento di una scia di sangue che non permette eccezioni, che è l’unica regola che la giovane ha imparato a conoscere. Il desiderio di vendetta di Mattie non è generato da crudeltà o dall’incapacità di sopportare il dolore; sembra piuttosto il normale sbocco dell’ordine naturale, si fa per dire, delle cose. E di quell’ordine il rappresentante simbolico è proprio Cogburn, spiccio di modi e con quella benda sull’occhio che sembra una medaglia conquistata sul campo.
Il Grinta dei Coen cerca da subito di differenziarsi da quello di Wayne
Come la piccola Mattie già dall’aspetto esteriore sottolinea il suo stato di ragazza cresciuta troppo in fretta (indossa sempre un vestito nero, da adulta, a differenza di Kim Darby, abbigliata come un monello da strada con braghettoni e cappellino tondo), così il Rooster di Jeff Bridges cancella sin dalle prime scene l’immagine epica dell’eroe western. L’andamento imponente di Wayne lascia il posto a una camminata incerta, perennemente alcolica, e l’atteggiamento che il Grinta sente intorno a sé è di malcelata diffidenza più che di deferenza timorosa. Ubriacone, arrogante, fiero dell’immutabilità delle sue regole di vita, Cogburn accetta senza eccessiva simpatia l’incarico di Mattie e il rapporto tra i due cresce attraverso una diffidenza maggiore e più aderente allo spirito dei personaggi.
La scelta di Jeff Bridges avvalora la tesi: al posto del monumento “Duke”, che deve scavare a fondo per cancellare dal suo sguardo e dal suo portamento un eroismo ormai implicito, Bridges porta dentro sé (soprattutto quando è diretto dai Coen), la trasandatezza anarchica di un antieroe contemporaneo, il “Dude”, Drugo Lebowski. Stropicciato e indolente come il cantante country di Crazy Heart con cui ha vinto l’Oscar, Bridges riesce ad essere allo stesso tempo sgradevole e coinvolgente, ironico e crudele. “Un uomo grasso e con un occhio solo”, come lui stesso si definisce, capace però di rendere credibile la mutazione affettiva del personaggio attraverso una caratterizzazione coraggiosa, spogliando delle ultime tracce di eroismo il suo protagonista e regalandogli una postura caracollante e una parlata strascicata al limite del caricaturale, segno di una difficoltà relazionale ed espressiva di un uomo con i piedi a cavallo della legge.
Il terzo vertice del triangolo in caccia è il Texas Ranger LaBoeuf, un tipico ragazzone all-american, vestito da cowboy come fosse nel circo di Buffalo Bill. Matt Damon regala al personaggio una normalità che rasenta il banale: una marionetta dalla parlantina facile e dalla prevedibilità assoluta che durante la storia ha l’occasione di redimersi. Recuperando a fondo l’ironia e la freschezza linguistica del romanzo d’origine (i dialoghi spesso sono ricalcati dal libro), i Coen riescono a cogliere fino in fondo lo spirito dei personaggi calcando la mano sulla caratterizzazione: i tre sono maschere simboliche che assumono pian piano una personale profondità. E, cosa più importante, i due uomini lo fanno grazie al contatto emotivo con la ragazza che, sentendo di doversi uniformare alle regole virili di quel mondo, ne riesce invece a sfumare i connotati, a invertirne, almeno in parte, le polarità immutabili e definite.
Il ripristino della struttura a flashback – e soprattutto il reinserimento di un particolare drammatico edulcorato nella versione di Hathaway – contribuisce a dare prospettiva al racconto che diventa a tutti gli effetti un romanzo di formazione in cui il senso della morte e del tempo che passa assumono un tono disincantato ma commovente e non del tutto privo di lirismo. Anche perché la crescita e la determinazione si conquistano attraverso la perdita, letteralmente, di una parte di sé. Se la maggiore aderenza all’originale di Portis (e il distacco dalla mitologia intrinseca del western tradizionale) rafforzano un senso di contemporaneità contenutistica, il film dei Coen non rinuncia all’omaggio stilistico ai classici del genere. Autori abituati alla sovversione più che alla citazione attraverso un gioco combinatorio linguistico-stilistico, in questa occasione i Coen fanno un’operazione di sfolgorante modernariato vintage.
La lucida fotografia di Roger Deakins, le musiche malinconiche di Curtis Burrell, il montaggio pacato degli stessi Coen (firmato con l’usuale nome fittizio di Roderick Jaynes) donano al film un’atmosfera senza tempo lontana dalle variazioni crude e iperrealiste dei western della New Hollywood. Omaggio e rivisitazione, classicismo e modernità si alternano e si fondono in un’opera che ha il respiro del vecchio cinema e il ghigno abituale dei Coen, ragazzi terribili dell’America di oggi.