Payne fa rima con Pain. Al regista di Sideways, nobile esponente di un cinema ossimoro, indipendente e mainstream, che attira grandi attori senza compromettersi (troppo) con Hollywood, dovete dare storie di dolorosissima normalità perché vi regali momenti cinematografici speciali. A volte sono solo momenti – come nel sopravvalutatissimo road movie etilico –, altre sono storie intere, come nel caso di A proposito di Schmidt e soprattutto Election, un piccolo capolavoro. Paradiso amaro fa parte della seconda categoria, come testimoniano le candidature all’Oscar e gli applausi al Festival di Torino.
Il cineasta abbandona i suoi toni più cinici per dedicarsi al più classico dei melodrammi familiari, fatto di morte, verità nascoste e ri(s)catti morali. George Clooney passa dall’essere un marito distratto a un padre distrutto: sua moglie, che gli nasconde più di quanto immagini, rimane vittima di un incidente in motoscafo. La vedremo per tutto il film
sul suo letto di dolore, tenuta in vita da un respiratore e destinata a morire, come recita il suo testamento biologico. Noi seguiamo il bel George e le sue figlie – bravissima Shailene Woodley (e non solo perché è quasi sempre vestita solo del costume da bagno) – in un percorso a ostacoli alle Hawaii in cui ricostruire una famiglia orfana in molti sensi. Troppi.
Payne ritrae la normalità con il solito garbo e qualche ruvidezza ben messa, sa essere elegante rifuggendo la retorica scontata – pur sapendo pigiare sui tasti dei sentimenti con energia –, sorvola e sfiora temi importanti senza rimanerne schiavo. E pazienza se in certi momenti vorresti che approfondisse, che ti facesse immergere nella storia, lui dà il meglio nel rincorrere ciò che racconta piuttosto che nel raggiungerlo. E magari lo fa con quello stile un po’ goffo e appesantito a cui costringe Clooney nei due buffi scatti del film, perché a lui i divi piace decostruirli. Non perde il gusto Alexander per qualche battuta “diversa”, per un paio di comprimari di razza come Robert Forster e Judy Greer – il primo in particolare con due scene riempie il film –, per qualche scena strappalacrime forse eccessiva ma comunque ben messa.
Ne esce fuori un lungometraggio che va sul sicuro, figlio di quell’unicità di Payne, sempre a metà tra il cinema delle star e quello delle idee, del bel romanzo di Kaui Hart Hemmings e di una location incredibile come l’arcipelago hawaiano, un mondo prezioso e sconosciuto usato non solo come luogo geografico ma anche come posto dell’anima.
Un Paradiso amaro, appunto.