Sì, avete letto benissimo, non è un titolo da clickbait. Stiamo proprio parlando delle aspettative che la società ha nei confronti di una donna che ha subito degli abusi. Comportamenti, un certo contegno e persino i pensieri che dovrebbe o non dovrebbe avere. Da anni ormai prendo il 25 novembre, la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (ogni anno il nome subisce una piccola modifica, diventa sempre più complicato, si allontana sempre più dalla praticità, e grazie mille anche per questo) come un pretesto per tirare le somme di una lotta che porto avanti ogni giorno. E come ogni anno, vi racconto cosa penso e cosa accade davvero a una donna che denuncia un abuso. Perché si fa presto a dire di denunciare, ci si lava facilmente la coscienza. Sono davvero pochi quelli che ti spiegano cosa viene dopo.
La riflessione di quest’anno è nata, come l’editoriale dello scorso anno, da un paio di conversazioni. Una con un uomo che, seppur ancora con qualche nebbia, ha imboccato la strada giusta; l’altra con una donna fantastica, con una voce portentosa, che tenere in silenzio sarebbe un crimine contro l’umanità. “Lo so che non si direbbe che ho subito violenza, perché sono una burlona. E nemmeno di te… tu scherzi sempre”, mi ha detto.
Già. Non ci si aspetta che una donna che subito violenze possa ridere. Che possa persino fare battute agli uomini. Che possa lavorare, come nel suo e nel mio caso, in mezzo a tanti uomini. Se hai subito violenze, la tua vita è distrutta per sempre. Sei traumatizzata, pertanto non puoi godere appieno del tuo corpo, del tuo senso dell’umorismo. Non ci può essere leggerezza nella tua quotidianità.
25 novembre: la donna resta vittima
Ho analizzato questo aspetto, dopo aver parlato con la mia amica. E non è stato difficile ritrovare testi che lo provano. Per decenni ci insegnano che le donne che hanno incassato colpi sono vittime, e tali rimangono. Del resto, anche nel mio caso, la perizia dice “danni permanenti”, e da lì non si sfugge. Ricordo quando spiazzai tutti i miei amici presentandomi con un occhio nero e ridendo: “Ho sbattuto contro una porta e rido, perché questa volta è vero!”. Sì, amici miei, si può ridere di tutto, anche di questo. Dei presenti quella sera, solo uno è rimasto nella mia vita.
Ma andiamo con ordine. Analizziamo per ora solo due tipi di violenza, i più atroci, se la donna ha la fortuna di sopravvivere. Violenze domestiche reiterate e violenza sessuale.
Sulla prima il giudizio è complicatissimo. Ricordo la prima manifestazione di Se non ora quando. Applausi scroscianti quando si nominava la violenza sessuale. Qualche timido battimani, occhi bassi e silenzio quando si sono nominate le botte di mariti e compagni. Una donna su tre ha subito violenza, e questi sono solo i dati di chi denuncia. Siccome l’omertà vige ancora nel nostro paese, ho motivo di pensare che siamo una su due. Statisticamente, fra tutti i presenti, a qualcuno le mani hanno bruciato di colpa.
Cosa ci si aspetta ve lo posso raccontare: “Ma in fondo, non ti ha violentata” è la frase più frequente. E permettetemi, la più schifosa. Non ci si rende proprio conto di cosa significhi non avere un posto in cui sentirsi al sicuro. “Ma devi proprio affrontare la battaglia legale? Non puoi solo chiudere e voltare pagina, andare avanti?” è la seconda.
Poi passano gli anni. Ci si aspetta che tu sia mansueta, del resto sei stata cresciuta a botte, che tu sia remissiva, che non alzi la voce, che il tuo valore non lo conosca mai fino in fondo, che tu non possa pretendere dei riconoscimenti, sul lavoro o anche in una relazione di coppia. Sempre un gradino più in basso, tanto è lì che sei abituata a stare. E naturalmente cupa. Impaurita. Appena qualcuno fa la voce grossa, dovresti ritirarti nel tuo angolo buio. Altrimenti siamo proprio sicuri che tu abbia preso pugni?
Se una donna ha subito violenza sessuale, tutto questo è semplicemente amplificato. La sua sessualità violata è stata stuprata per sempre. E deve vivere in questo stato di continuo post-trauma. Non ci si aspetta che abbia desiderio, passione, voglia di sperimentare. Come tutte noi. Il suo corpo è stato trafugato, quindi da quel momento non le apparterrà più. Violato per sempre, intoccabile. Indesiderabile.
Non ho necessità di snocciolarvi dati statistici: voi come me questi pensieri li avete avuti e lo sapete. Ce li insegnano fin da piccoli.
25 novembre: il silenzio continua a essere il nemico più grande
Ed ecco allora nascere un fenomeno che chiamo “silenzio di ritorno”. Perché quando decidi di parlare, sei un fiume in piena. Una pentola a pressione che finalmente scoppia, e tutto erutta fuori. Poi però lotti, porti avanti cause legali, vai a fare terapia, cerchi di superare un trauma incancellabile, o quantomeno impari a conviverci. Comprendi e pretendi il tuo diritto a un’esistenza normale. Perché se ho denunciato, è stato per riprendermi la mia vita, per viverla appieno, come tutti. E invece appena qualcuno viene a sapere del tuo passato, ti guarda con altri occhi. Eccolo là, quello sguardo che detesto: quello della pietà.
Ecco che c’è chi al lavoro se ne approfitta, e alza la voce, così sa di far leva su quella tua cicatrice mai scomparsa. E chi invece, al contrario, ha timore di contrariarti. Chi ti chiede scusa, in buona fede, se ti ha chiesto un consiglio su come comportarsi per convincere un’amica a denunciare (“Perdonami se ti faccio ripensare a certe cose”. Amico mio, io a certe cose ci penso ogni giorno, non potrei evitarlo nemmeno se volessi). Ti trattano con dei guanti bianchi che eliminano il contatto umano, come una bambola di cristallo che potrebbe rompersi da un momento all’altro.
E l’intimità? Parlo per esperienza: gli uomini hanno paura. Di fare qualcosa di troppo forte, di farti rivivere chissà cosa. Il sesso diventa di una noia mortale, che uccide il desiderio stesso. E se chiedi anche solo una parola un po’ più “sporca” ti guardano come minimo con sorpresa.
Se lo state pensando siete nel giusto: anche questa è violenza. Se dovessimo davvero essere così, significherebbe che i nostri carnefici hanno vinto. E che non c’è niente che possiamo fare al riguardo.
Ma io voglio una vita normale, per quanto possibile, da ieri in poi. Non posso aspettare che chi mi circonda lo capisca. Ho diritto a ridere, alla leggerezza, a essere la solita buffona. Ho diritto a fare battute maliziose, anche con gli uomini. Ho diritto di imbattermi in uno scontro professionale alla pari, anche con un uomo. Ho diritto al mio desiderio sessuale, a notti sfrenate e a frasi irripetibili altrove. Come tutte e tutti. Senza che qualcuno si arresti di fronte a me perché ha paura di ferirmi. Perché non mi crede. Perché se non sono remissiva, allora forse non è vero che ho subito violenza. O, peggio, perché “con questo caratterino, chissà… forse a tuo padre gliele levavi dalle mani”. Vergognatevi.
Come i portatori di un qualche handicap, le donne che hanno subito violenza devono essere tutte caste, gentili, remissive, timide e avere problemi di sicurezza con il proprio corpo. Magari qualche problema alimentare o con gli oggetti taglienti.
Ecco perché, dopo anni trascorsi a raccontare la mia esperienza, adesso mi sono resa conto di non parlarne quasi più, se non con poche persone che già la conoscono. Il che ghettizza e isola. Ecco perché, dopo anni di racconti, sono tornata, mio malgrado, al silenzio. Quello stesso silenzio che c’era prima. Un mostro gigante, con le facce di tutti voi, proprio di fronte a me.