Un giorno di pioggia a New York. Difficile immaginare qualcosa di più romantico, se raccontato da qualcuno che la Grande Mela la conosce come pochi e la vede attraverso gli occhi di un innamorato. Come Woody Allen, che la decanta da oltre quarant’anni.
Per Sidney Lumet, altro regista per cui New York era a casa, un giorno di pioggia a New York avrebbe significato una discesa nelle oscurità dell’animo umano, portati sullo schermo con una fotografia livida e sgranata, fatta di contrasti e chiaroscuri. Per Woody Allen, invece, c’è sempre un raggio di sole che spunta, perché anche i momenti peggiori vanno affrontati con un sorriso.
E saranno stati tanti quelli che si è fatto, sorrisi ovviamente, mentre scriveva questa commedia sull’amore, o meglio, che apparentemente è una commedia sull’amore, in realtà riflessione straordinariamente profonda su molto altro. Oltre che divertentissima vendetta nei confronti di tanti martiri autoproclamati.
Un giorno di pioggia a New York è la storia di Gatsby e Ashleigh
Giovane e bellissima coppia che dal loro college della campagna a nord della metropoli, si reca in città per approfittare di una grande occasione capitata all’aspirante futura giornalista. Ashleigh deve infatti intervistare Roland Pollard, regista intellettuale indipendente di culto, suo idolo assoluto. Quello che doveva essere un incontro di un’ora, si trasforma per la giovane in un susseguirsi di assurde situazioni, mentre Gatsby vaga solo per la città, scoprendo che New York era la sua città. E lo sarebbe sempre stata.
Un giorno di pioggia a New York vede tornare Allen a un livello di scrittura sensazionale. L’intreccio è un orologio svizzero che attinge ai grandi amori cinematografici del regista, da Lubitsch a Preston Sturgess e Leo McCarey, senza dimenticare Billy Wilder, da cui ha imparato a essere crudele facendo ridere anche la vittima. E qui di bersagli ce ne sono non pochi, e facilmente riconoscibili. La dolce Ashleigh è un maestoso e mostruoso collage di famiglia, giornalista con l’ossessione per lo scoop e la convinzione di essere una raffinata intellettuale, che non resiste alle tante tentazioni dello star system e a uomini affascinanti e molto più anziani. La famiglia Farrow è servita.
Ma per giustizia, Allen non risparmia neanche se stesso. Il mondo del cinema è fatto di uomini insicuri (in questo caso Liev Schreiber, Jude Law e Diego Luna, impagabili tutti e tre), con un perenne bisogno di compensare le loro lacune emotive, e talvolta artistiche, con la compagnia di una giovane donzella, salvo poi idealizzarla come musa. Un errore reiterato che prima o poi inevitabilmente si paga.
E poi c’è l’aristocratica borghesia newyorkese
Quella ipocrita e pronta a puntare il dito e voltare le spalle, spesso immemore delle proprie origini. In questo scenario, il giovane, brillante, gaudente e intellettuale Gatsby Welles, quando un nome e un cognome non sono dati a caso, ha modo di fare un bilancio della sua breve e densissima esistenza. Soprattutto, capisce che l’apparenza inganna e che la felicità è spesso dove meno ce l’aspettiamo.
Un giorno di pioggia a New York è un film straordinario
Fare classifiche è una malattia del cinefilo, e assecondando l’infermità probabilmente rientrerebbe in una top ten dei migliori Allen. Per la scrittura come detto, per la regia, magnifica, che alterna con sapienza ed equilibrio piani sequenza da cinema indie a campi-controcampo classicissimi. Il tutto illuminato da un Vittorio Storaro in stato di grazia, che si diverte con tagli di luce inaspettati, riflessi iperrealisti, morbidi colori soffusi che accompagnano il tappeto jazz di una giornata di pioggia da ricordare. E una scena, il monologo della madre di Gatsby, che è perfetta sintesi di quanto detto, rientra senza timore di smentita tra le prime dieci di tutta l’opera di Woody Allen, grazie anche a una monumentale Cherry Jones.
A tal proposito, a l’imberbe Timothée Chalamet cui viene regalato un ruolo di straordinaria bellezza che il protagonista di Chiamami col tuo nome non spreca neanche per un istante. Un’interpretazione davvero magnifica la sua, rovinata dal suo desiderio, veicolato certamente da un cattivo consigliere, di non volere più lavorare con Allen. Cosa che non ha fatto, giustamente, Selena Gomez, splendida sorpresa nei panni di una giovane newyorkese sarcastica e romantica. Una bella lotta con Elle Fanning, anche lei stupenda nei panni dell’eterea e superficiale Ashleigh, un ruolo stranamente simile a quello che le aveva riservato Nicolas Winding Refn in The Neon Demon, declinato in maniera totalmente opposta.
Tre dimostrazioni di quanto un set di Woody Allen sia una tappa fondamentale per un attore.
Soprattutto, lo è nel mestiere di spettatore farsi sorprendere ancora una volta da quello che è senza ombra di dubbio uno dei più importanti cineasti della storia del cinema, che guarda alla vita con una lucidità, alla veneranda età di ottantaquattro anni, che la maggior parte dei suoi giovani colleghi potranno solo sognare, adesso e per il resto della loro già molto noiosa carriera.