Mentre attori, registi, produttori, distributori e giornalisti o sedicenti tali (tra cui si annovera anche chi scrive, tanto per sentirsi la coscienza a posto) iniziano la loro tre giorni di feste, pranzi, cene e trailer in quel di Sorrento, Mario Monicelli, afflitto da un tumore alla prostata che ce lo avrebbe presto portato via nella maniera peggiore, ha fatto quello che solo un grande uomo di spettacolo avrebbe fatto. L’uscita a effetto, un addio con i fiocchi, io non ci muoio in quel letto, crepateci voi al San Giacomo facendovela addosso. Io ho di meglio da fare.
Lo ha scelto lui quando morire, come aveva scelto come vivere, questo toscano figlio di mantovani, quest’ultima rockstar, lo ha scelto come Hemingway, come Levi, come Kurt Cobain, in un momento in cui il nostro paese fa più schifo che mai, lui che quest’Italia l’ha rivoltata come un calzino per sessant’anni.
Se ne va Mario Monicelli, due settimane dopo un altro grande vecchio, quasi coetaneo, Dino De Laurentiis, il produttore che lo lanciò affiancandolo a Steno per dirigere Guardie e ladri, con Totò e Aldo Fabrizi. Venivano da due terre diverse e si incontrarono a metà strada, a Roma, a Cinecittà, in un posto che fecero loro grazie all’ intelligenza e al talento.
Critico, sceneggiatore, aiuto regista, regista, la carriera di Mario Monicelli dovrebbe essere studiata a scuola, film per film, per insegnare la vera storia d’Italia, quella di una banda di cialtroni che cerca di fare il colpo della vita ne I soliti ignoti, o di due uomini che scoprono d’avere un coraggio da nobili cavalieri ne La grande guerra, come lo era anche Brancaleone con la sua sghangherata armata. Un cinema picaresco, il suo, quasi sempre divertito e divertente, ma anche crudele per la potenza delle verità che ci ha trasmesso. Come ne Un borghese piccolo piccolo, in cui Monicelli punta il dito contro il terrorismo, reo di avere perso di vista il popolo e per questo degno d’essere processato e condannato dallo stesso, o in un film sottovalutato come Parenti serpenti, in cui mette grottescamente alla berlina l’istituto della famiglia.
Un Leone d’oro per La grande guerra, due nomination all’Oscar, I soliti ignoti e I compagni, film dimenticato che andrebbe visto e rivisto per farsi sconvolgere dalla sua attualità, entrambe opere prodotte da Franco Cristaldi, altro grande uomo che manca al cinema italiano. Ma i premi non li ha mai contati Monicelli, preferendo dedicarsi al fare, fino alla fine, con Le rose del deserto, suo ultimo lungometraggio, del 2006, girato a novantuno anni sotto il sole africano, e poi con l’omaggio alla sua casa romana, Vicino al Colosseo… c’è Monti.
L’eredità che lascia Mario Monicelli non è solo destinata alla nostra arte cinematografica, ma a tutti noi italiani, perché pochi come lui sono riusciti a dare nel corso degli anni, nei momenti più tristi e difficili del nostro martoriato paese, una visione sempre lucida di quanto stesse accadendo. Sarebbe inutile fare una carrellata delle sue opere, non basterebbe il tomo che Steve Della Casa gli dedicò qualche anno fa e che è comunque un’ottima e consigliata lettura.
Noi di The Cinema Show avevamo incontrato il Maestro a giugno, al Biografilm Festival di Bologna, dove ci aveva intrattenuto, divertito e come sempre fatto riflettere, raccontandoci storie del tempo che fu, sparando a zero sul tempo che è e parlandoci di un film che parlava di un decennio importante per l’Italia, gli anni Sessanta, spogliato dei frizzi felliniani e riportato al livello del popolo e della realtà. Risate di gioia è il titolo, e siamo sicuri che il suo regista le vorrà sentire anche al suo funerale.
O magari sarà
“un funeralone da fargli pigliare un colpo a tutt’e a quelli: e migliaia di persone, tutte a piangere e corone, telegrammi, bande, bandiere, puttane, militari…”
Come quello del Perozzi in Amici miei.
Noi ci saremo, perché noi credevamo. In lei, signor Mario Monicelli. Faccia buon viaggio.