Realizzare un film sugli ultimi mesi di vita di Bettino Craxi ai tempi delle Sardine. Ai tempi di Matteo Salvini e dei rigurgiti fascisti, delle serate a ballare su Giorgia Meloni vocalist, di una confusione ideologica e una rassegnazione sociale ormai talmente diffusa da non farci più nemmeno caso. Ai tempi del cane mangia cane, della ricollocazione della ricchezza sproporzionata e mal proporzionata che vede i danari nelle mani di pochi, nuovi ricchi, nuovi nobili. Ovvio che Hammamet abbia fatto parlare prima ancora di uscire in sala. Se a questo si aggiunge che il protagonista è forse l’unico attore italiano dal talento indiscusso e che le immagini che lo vedono truccato da Craxi hanno già lasciato tutti a bocca aperta, ecco qui che i commenti sui social si sono sprecati. Recensioni sul nuovo film di Gianni Amelio da parte di tutti – tanto in fondo, come tutti ormai sono esperti di politica, lo sono anche di cinema. Italia, paese di poeti, santi musicisti e critici cinematografici. Che poi non riescono ad andare al di là del mi è piaciuto/non mi è piaciuto.
Per questo già tutti quanti si aspettavano un film che si inscrivesse nel filone di qualcosa di cinematograficamente rigoroso come Il divo, di serie come 1992, del racconto di un periodo, quello della Prima Repubblica e della sua fine, che oggi tanto fa parlare, non senza una certa nostalgia. Peccato che Hammamet non sia un film politico.
Come Re Lear: gli ultimi giorni di Craxi a Hammamet
Per stessa ammissione di Gianni Amelio, Hammamet è il racconto della caduta di un re. L’ultimo uomo di potere italiano. Di potere per davvero. Che oggi il potere logora chi li sta a sentire, ma potere politico, peso internazionale in politica estera, voce in capitolo non ne abbiamo. Con nessuno. E brucia ammetterlo, ma Craxi, il grande statista, questo peso politico lo aveva. Nel bene e nel male. Non fa sconti il film di Amelio in questo senso: non lo santifica, non lo demonizza. Da bravo democristiano. Un colpo al cerchio e uno alla botte. Con gran rispetto.
Il lavoro davvero interessante è stato quello di Pierfrancesco Favino. Erede non tanto di Toni Servillo, quanto di uno come Roberto Herlitzka: multitalentuoso, sensibile, preparato. Aperto a interpretare uomini di qualunque genere restituendo loro l’umanità, per l’appunto. Di materiale a disposizione per prepararsi Favino ne ha avuto tanto, come ci ha anche raccontato durante l’intervista in cui ha parlato del su Craxi. Ma è rimasto lontanissimo dalla macchietta, dalla giogionismo, dall’imitazione fine a se stessa. Ha piuttosto eviscerato un’umanità senile, una rassegnazione alla morte, una coerenza alla propria figura pubblica che forse era specifica degli uomini come Craxi. Fedeli a una linea, quella del partito, quella dell’uomo di partito, della difesa di una classe/nobiltà che stava per venir ghigliottinata dai tempi.
Favino porta l’ennesima interpretazione impeccabile, elegante, misurata, mai eccessiva. Il lavoro sulla voce, sul gesto, sul modo di camminare sono l’unico elemento che fa muovere il film. Aiutato dal trucco prostetico di un comparto make-up che, se fossimo a Hollywood, verrebbe coperto di premi. Meritatissimi premi.
Hammamet, un’occasione sprecata
E finora abbiamo ripetuto ciò che già tutti sanno. E su cui tutti continueranno a concentrarsi. Quanto è bravo Favino, quanto è incredibile il trucco, cosa c’è e cosa manca di Craxi nel film. Chiedersi se Amelio assolve o meno Bettino, se per opportunismo tace tutti i soldi sottratti, se giustifica Tangentopoli… Noi vogliamo però giudicare anche il film.
Perché Hammamet è una grossa occasione sprecata. Lontanissimo dal tocco di Garrone, ma anche di certo Amelio, sembra una fiction televisiva, e potrebbe essere tranquillamente recensito a suon di citazioni da Boris – la serie. E anche se decidessimo di non cadere nei virgolettati sulla fotografia e la levatura specista degli attori coinvolti, sappiamo che ci avete capiti. La bravura di Favino evidenzia inesorabilmente il gap con interpreti che inciampano anche con il foglio davanti. Letteralmente. Alle prese con battute che inanellano un cliché dopo l’altro, una frase fatta dopo l’altra, un affresco radical chic dietro l’altro.
I movimenti di macchina si sprecano: dopotutto stiamo parlando di Gianni Amelio, mica di René Ferretti… Certo che due piani sequenza in fila urlano però una certa ostentazione e ostinazione. Un bravo attore non fa il film, non da solo. Nemmeno se è Favino. Purtroppo non gli fanno ancora interpretare tutti i ruoli.
E troppo sottinteso non verrà compreso da chi non c’era o da chi – e in Italia sono tanti – ha la memoria corta. Nessun uomo politico, nessun giudice viene mai nominato. Scelta specifica, ma forse poco rispettosa dello spettatore. Anche perché il tempo trascorso è poco, siamo ancora tutti qui, a chiederci cosa sia successo.