Figli è un film di Mattia Torre. C’è scritto così sui titoli, ed è così, e non se la prende Giuseppe Bonito che lo ha diretto, perché è stato l’ultimo favore per un grande amico. Come hanno fatto Valerio Mastandrea, Paola Cortellesi, Valerio Aprea, Massimo De Lorenzo, Paolo Calabresi, Stefano Fresi, e tutti quelli che hanno contribuito a far arrivare sul grande schermo l’ultima storia scritta da quello che fu uno dei creatori di Boris.
Storia semplice ed enorme Figli, quella di una coppia a cui arriva il secondogenito, evento che sconvolgerà le loro vite, in che maniere inutile svelarlo, si va al cinema per questo. Basti sapere che Figli è un film bellissimo, profondo, doloroso, divertentissimo, sorprendente, un oggetto quasi non identificabile nel panorama cinematografico italiano, pur nel suo attuale fervore di generi e successi al botteghino. Mastandrea e Cortellesi sono magnifici nei panni della coppia alle prese con il nascituro. Un film da non perdere, davvero. Ma non è di questo che vi devo parlare.
Mattia Torre lo conobbi nel novembre del 2001.
A Torino, dove quell’anno venne presentato Piovono mucche, che aveva scritto insieme a Luca Vendruscolo. Fu Gianluca Arcopinto a presentarmi entrambi, il produttore che ha scoperto praticamente tutto il migliore cinema italiano degli ultimi trent’anni. Avevo giocato per un po’ nella sua squadra di calcio negli ultimi anni dell’università, insieme a Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Fabio Nunziata, Giulio Base. L’uomo dei sogni, così lo chiamo Arcopinto.
Parlai molto con Vendruscolo e Torre, il film era divertente e intelligente, avrebbe meritato maggiore fortuna. Giacomo Ciarrapico aveva presentato il giorno prima durante lo stesso Torino Film Festival Eccomi qua, sua opera prima, anch’essa sottovalutata.
Questi tre ragazzi comunque non passarono inosservati. Avrebbero poi fatto carriera, prima scrivendo Buttafuori, sit com per la RAI assolutamente incompresa, e quindi grazie a quella che possiamo tranquillamente definire una pietra miliare della televisione italiana: Boris. L’ho rivisto qualche altra volta negli anni Mattia Torre, non molte, tutte occasioni che ricordo con grande piacere. Una la trovate più avanti, documentata con un video.
Mattia Torre è nato nel 1972
Era di un anno più giovane di me, ma sono dettagli. Mattia Torre era della mia generazione, oggigiorno delicato modo per dire che eravamo tutti e due sulla stessa barca che affonda nella merda. Quelli nati all’inizio degli anni Settanta, infatti, hanno spesso la fortuna di poter condividere qualcosa di davvero importante: la consapevolezza di essere in un limbo. Troppo giovani per prendere il posto di chi c’era prima, oggi troppo vecchi per poter finalmente rimpiazzarli.
Un caro amico, anche lui del 1972, mi diceva qualche giorno fa che sa perfettamente di non avere più alcuna possibilità di lavorare in un’azienda. Preferiscono i giovani, quelli che non assumevano quando eravamo giovani.
Un paradosso, uno dei tanti di questo paese, che Mattia Torre ha raccontato spesso durante la sua troppo breve carriera, sbattendoli in faccia ai suoi spettatori e/o lettori con una esilarante violenza dialettica. Violenza, sì, perché mentre ti sganasci dalle risate, non ti accorgi che quello che realmente ti percuote sono i cazzotti che ti sta dando in faccia la vita. Lo ha sempre fatto, con coraggio, intelligenza, un immenso talento. Dopo Boris, e soprattutto dopo la malattia, raccontata meravigliosamente ne La linea verticale, serie gioiello che trovate su RaiPlay, lo avrebbe fatto ancora meglio.
Figli ne è la dimostrazione.
La crisi di una coppia, portata al parossismo, a causa di un evento che più naturale non si può, ma che oggi può rovinarti la vita. Perché i genitori di quelli della mia generazione sono stati i primi colpevoli del nostro limbo, e ancora di più lo è lo Stato, che di quelli come me, ma anche di quelli più giovani che lavorano nei posti che non ho mai avuto e mai avrò, se ne frega. Se ne fotte, se ne sbatte, non offre soluzioni, alternative, rimedi, non gliene importa una beneamata ceppa, mangana, insomma un cazzo, di come si vive oggi, della fatica che si fa per mettere insieme due lire, mangiate poi da tasse con percentuali bulgare e da cravattari, utili a fornirci servizi ogni giorno più scadenti.
Ecco, Mattia Torre tutto questo lo dice gridando gentilmente in Figli, perché era una persona molto educata, oltre che brillante e capace. E la cosa va sottolineata, perché oggi essere educati sembra essere una macchia terribile. Un po’ come avere una cultura.
Mattia Torre anche questo ha raccontato, e molte altre cose avrebbe potuto dire, fare e baciare, se non fosse intervenuta una brutta malattia che se lo è portato via. Mattia Torre aveva qualcosa che manca oggi in Italia.
Aveva una voce.
Lucida, chiara, forte, pensante, vibrante. Mattia Torre avrebbe scritto e detto cose importantissime, che avrebbero aiutato in maniera decisiva a risvegliare le coscienze di un paese di sardine e di citofoni, di bibitari e cialtroni, di nostalgici di nani e ballerine, di politica su Twitter e Instagram. Sarebbe stata una luce nell’oscurità.
E invece non sarà così. E questo è tremendo, perché avere la consapevolezza di avere perso una penna, una testa che avrebbe cantato l’ira funesta di una generazione perduta, mi avrebbe fatto vivere con la dovuta tranquillità il resto della mia vita, continuando a non fare, dire, scrivere niente di importante, perché tanto ci avrebbe pensato lui, Mattia Torre.
Ma non è più possibile. E per non rendere vano quello che ha seminato, ora dovrò scrollarmi di dosso, e non solo io, la comoda ignavia che mi cloroformizzato negli anni, e fare la mia parte. Perché è giusto così, lo devo, lo dobbiamo a Mattia Torre.
E ho cominciato così, con la storia di come Mattia Torre mi ha rubato la vita.