Una domanda che sarebbe necessario porsi più spesso è: la creatività ha un tetto massimo? Un artista, che sia uno scrittore, un pittore, un cineasta, può raggiungere il limite del suo talento? Personalmente, e quindi è una considerazione che lascia il tempo che trova, credo di sì, tranne rarissime eccezioni. È molto importante, quindi, riuscire a gestire il proprio serbatoio, diluendo le opere migliori nel tempo, facendo così in modo che la propria fiamma non smetta mai di ardere. Poi ci sono le eccezioni, legate alla certezza di non avere tempo. Aubrey Beardsley è una di queste eccezioni.
Nato nel 1872 in quel di Brighton
Beardsley ha concentrato la sua straordinaria produzione artistica in appena sei anni, tra il 1891 e il 1897. Perché sapeva di avere un tempo limitato su questa terra. A sette anni gli fu diagnosticata la tubercolosi, malattia all’epoca incurabile. Ha quindi sempre vissuto nell’immanenza della fine. Fu certamente questa la ragione per cui fu avido di conoscenza e straordinariamente bravo a fare sue quelle influenze che maggiormente smuovevano il suo animo irrequieto .
Difficile dare una definizione dell’opera di Aubrey Beardsley
Illustratore, sarebbe quella tanto corretta quanto limitante. Artista, naturalmente, perché con il suo lavoro è stato degno rappresentante di un’epoca di passaggio, precursore di correnti e movimenti, ispiratore per forme espressive altre e a lui ben posteriori.
Inchiostro di china era lo strumento di Aubrey Beardsley
Con cui illustrò la splendida edizione de Le Morte d’Arthur di Thomas Malory pubblicata dalla Kelmscott Press di William Morris. Un volume prezioso, ma grazie alle allora innovative tecniche di stampa accessibile a un pubblico più vasto dei ricchi collezionisti nobili. Sebbene non fosse completamente soddisfatto della riproducibilità della sua opera, il giovane Aubrey capì l’importanza e la portata dell’operazione, che permise a tanti lettori di appassionarsi a l’opera letteraria e alle sue tavole, che spaziavano dai pre-raffaeliti (Edward Burne-Jones fu un suo mentore, Dante Gabriele Rossetti fonte d’ispirazione) alle giapponeserie, influenze di una cultura che proprio negli ultimi decenni del XIX secolo aveva fatto irruzione in Europa con le sue tradizioni, dalla moda all’arte.
Beardsley aveva un tratto straordinario, ma ancora più importante nelle sue opere è ciò che alla vista è quasi nascosto. Aveva fatto tesoro degli insegnamenti dei maestri italiani, da Piero Della Francesca, di cui apprezzava le allegorie di cui le sue opere sono popolate, ad Andrea Mantegna, il cui studio dei corpi e delle prospettive è immanente nell’opera del giovane britannico.
Lo si nota soprattutto, non potrebbe essere altrimenti, in quella che è la sua opera più nota, e anche più matura, non solo artisticamente, ma anche socialmente e politicamente. Le illustrazioni per la Salomè di Oscar Wilde sono un manifesto programmatico, un grido politico e sociale che gli costerà, molto, restando coinvolto, tangenzialmente ma in maniera importante, nella bufera che porterà il grande scrittore alla disgrazia, a causa della primitiva posizione britannica nei confronti dell’omosessualità. La tavola in cui viene porta a Salomè la testa del Battista su un vassoio, sorretto da un braccio di provenienza evidentemente infernale, è una sintesi dell’ipocrita epoca vittoriana e oltre.
D’altronde, il più grande dono che deve avere un illustratore è quello della sintesi, la capacità innata di racchiudere in un’immagine un mondo di idee e connessioni. Beardsley l’aveva, così come l’abilità straordinaria nel bilanciare linee e spazi, neri e vuoti. Questi elementi combinati portano inevitabilmente a pensare a una disciplina che, fortunatamente o forse no, la modernità ha reso sin troppo popolare.
Guardando le opere di Aubrey Beardsley è impossibile non scorgere quanto a lui debba Guido Crepax, la sua Valentina, e ancor più il suo magnifico Jekyll e Hyde sembrano essere disegnati da una mano guidata dal compianto giovane artista. E in tempi più recenti, e in un’altra parte del mondo, è difficile non notare ben più di un’affinità tra l’era vittoriana e le meraviglie disegnate da Asumiko Nakamura.
Sarà un caso, ma Aubrey Beardlsey ha oltretutto più di una somiglianza fisiognomica con il britannico indagatore dell’incubo Dylan Dog. E sarebbe interessante chiedere ad Angelo Stano se anche lui non sia stato, più o meno inconsciamente, influenzato da Salomè e Parsifal di fine ottocento.
Per tutti questi motivi, e anche molti altri, vale pena spendere un paio d’ore tra le sale della Tate Britain, passeggiando tra le duecento opere che compongono la splendida mostra dedicata a Beardsley. La prima dal 1966, all’epoca ospitata dal Victoria and Albert Museum, una exhibition che fece epoca, riportando in auge la sua opera e l’art nouveau, tanto da essere stato fonte d’ispirazione per la copertina di Revolver, uno dei migliori album dei Beatles.
Ma Beardsley fu ancor più innovativo, le sue opere sono l’anticamera del surrealismo, un movimento in cui questo giovane dandy si sarebbe probabilmente trovato a essere un punto di riferimento. Non lo sapremo mai, ma oltre a ricordarlo per i suoi lavori, è opportuno tenere a mente la disciplina con cui ha cercato, riuscendoci, di non sprecare il dono più grande. Il tempo che ci è concesso. Bene prezioso di cui, decisamente, non conosciamo assolutamente il reale valore.
AUBREY BEARDSLEY | |
4 marzo – 25 maggio 2020 Supported by the Aubrey Beardsley Exhibition Supporters Circle, Tate Americas Foundation and Tate Members Ogni giorno, dalle 10.00 alle 18.00 Per informazioni: tate.org.uk |