Sembra di essere in un film, di quelli distopici, uno di quei racconti in cui l’umanità viene sorpresa da un nemico improvviso e si trova impreparata. Il cinema ci ha raccontato mille e mille volte come la popolazione avrebbe reagito, sbalordita. La letteratura lo ha fatto molte più volte ancora prima. Eppure, il Covid-19 ci ha colti di sorpresa e siamo in molti a non saper cosa pensare. Non fino in fondo, almeno.
Con quel suo nome già fantascientifico, con quella sua forma un po’ mostruosa un po’ no… E allora mi sono detta: proviamo a considerarlo uno script, proviamo a smontarlo. Ad analizzarlo nello schema narrativo, per meglio capirlo. Per meglio capirci.
Metto insieme frammenti di racconto per vedere se ne esce fuori una sceneggiatura con un senso. Lo faccio con voi, a braccio, se vorrete leggermi. Perché una risposta, alla fine l’ho trovata. Senza alcuna pretesa che si tratti di quella giusta.
Il Covid-19, che unì l’Italia, che uccise gli esseri umani
Era ormai diversi giorni fa. Era da poco scattato il primo flashmob sui balconi. Nel mio quartiere, un fracasso rabbioso, frustrato, lontanissimo dalle belle immagini di coesione che abbiamo visto ai TG (e sono felice di apprendere che in altri quartieri ci siano state), frutto di qualcosa di tenuto chiuso e in silenzio per troppo tempo. Nessuno cantava, tutti urlavano e percuotevano oggetti. Chiesi alla mia amica A., in una chat di gruppo, quanti giorni era stata in isolamento vero lei, lo scorso anno, con una brutta broncopolmonite. Diciassette. Di cui dieci in una camera iperbarica. Nessuno di noi o dei suoi cari ha potuto vederla anche per diverse settimane dopo. Commentò quel fracasso: “Lasciali sfogare. Se fossero loro i malati, non farebbero tanto chiasso. Tutti leoni senza il problema”.
Già, i flashmob. Sono trascorsi diversi giorni e si sono moltiplicati. In maniera esponenziale, come il numero dei contagiati dal virus. Ma si sono smorzati di molto gli entusiasmi. Ciò che non comprendo è la ragione per cui, in una strada come quella dove abito, in cui quasi ogni casa ha un balcone, nessuno lo usi durante il giorno. Per stendere i panni ad asciugare, per pranzare al sole, per leggere all’aria aperta, per giocare con i bambini. Se avessi un balcone, sposterei la mia postazione in esterno finché c’è luce e mi sentirei meno reclusa. Invece questi balconi sono diventati i nuovi palcoscenici ai tempi del Covid-19: non si può uscire fino a che non è il momento, bisogna stare dentro, dietro le quinte, altrimenti non fa effetto.
Ce la faremo (?) Lo slogan del Covid-19
Oltre ai flashmob sono comparsi un po’ ovunque gli arcobaleni. Come a dire che tornerà il sereno. E le bandiere italiane, sulle quali preferisco sorvolare perché aprono un discorso assai più ampio sulla dicotomia filosofica dell’inclusione. Su lenzuola o fogli di carta appesi fuori si legge “Andrà tutto bene”. Oppure “Ce la faremo”. Io me ne sto sola nella mia casa in affitto senza balconi, a guardare fuori come ne La finestra sul cortile, e spesso mi trovo a parlare al telefono con persone che hanno bisogno di essere rassicurate. Da me, che sto da sola in una casa in affitto senza balconi, che non partecipo ai flashmob e non ho nessun ammortizzatore economico ad attendermi al termine di tutto questo.
Giorni fa, al termine di una conversazione di questo tipo, con una persona più grande di me, mi sono sentita chiedere con tono supplichevole: “Fede, ma secondo te ce la faremo?”.
Ero sbalordita. “Certo che ce la faremo!”, ho risposto con troppa energia. “Questa non è mica una vera guerra. Renditi conto che abbiamo cibo in eccesso, combustibile per le auto, corrente elettrica e acqua potabile in ogni casa, le comunicazioni funzionano tutte, stiamo parlando al telefono! Tu hai vissuto il dopoguerra, sei cresciuta in uno scantinato al Pigneto, con la luce delle candele e la puzza dei bisogni che facevi in una pentola, te la sei dimenticata la povertà vera?”.
Ha taciuto, scossa. La verità è che ha vissuto anche appieno gli anni Ottanta, l’edonismo, il boom economico, il consumismo sfrenato. E che quindi, sì: la povertà vera l’ha dimenticata, ora che il distanziamento sociale lo trascorre in una delle sue tre case di proprietà, quella con quaranta metri quadri di terrazzo. Sempre che non scelga di spostarsi nella villa al mare con giardino, per ragioni di salute, s’intende. La gente, soprattutto quella generazione dalla quale è scaturito il nostro disagio economico, non si rende conto: è terrorizzata dallo stop di stipendi sicuri e pensioni. Non comprendono che sono molte le cose a cui si può rinunciare prima di aver timore. E ripete cantilenando battute scritte da un pessimo dialoghista.
Il commiato è stato educato: mi ha detto di chiedere qualora mi servisse qualcosa. Frase di circostanza.
“No, grazie. Non mi serve niente”. Io che da quindici anni metto insieme il pranzo con la cena ogni giorno, pur non avendo uno stipendio, per lo più da sola, non ho timore, almeno per ora. Finché non dovrò vendermi i capelli come fece Jo March, non mi riterrò in stato di bisogno – nel dubbio, li sto facendo crescere.
Ma la mia non è una critica feroce a questi strani personaggi. Al contrario, li abbraccerei tutti come fossero sorelle e fratelli, li cullerei e li rassicurerei. Li guardo, nelle loro e nelle mie evidenti imperfezioni, e mi rendo conto che forse, finalmente, un pochino torniamo umani. Anche se il nome del vicino ancora non lo conosco. E in tutta questa raccolta di dati, ho forse capito il senso di questo racconto. L’unica cosa che ci viene richiesta ai tempi del Covid-19. E no, non è il restare a casa.
Ciò che davvero ci chiedono ai tempi del Covid-19
Nonostante lo ripetano, per il nostro bene e non certo per regime imposto, ciò che davvero ci viene richiesto non è il restare a casa per contenere il diffondersi del Covid-19. Perché quello a un certo punto finirà. Lasciate che mi spieghi con un ulteriore esempio personale.
Per carattere, sono una persona che tende a voler avere il controllo sulla propria vita, a non lasciare che gli altri decidano per me. Però ci sono elementi dell’esistenza che non puoi controllare, e allora è bene lasciarli andare. Quando non posso controllare qualcosa, smetto di pensarci. Libero un po’ di spazio in testa. Come ora: non posso decidere come andrà sotto molti punti di vista, inutile sbraitare e scalciare. La strada in discesa, prima di avere davvero paura di diventare poveri veramente, è tantissima.
Coraggio – sostantivo maschile
Forza d’animo connaturata, o confortata dall’altrui esempio, che permette di affrontare, dominare, subire situazioni scabrose, difficili, avvilenti, e anche la morte, senza rinunciare alla dimostrazione dei più nobili attributi della natura umana.
Fonte: prima voce risultante dalla normale ricerca su Google.
Quello che ci viene chiesto è un atto di coraggio. Qualcosa che è dentro di noi, che tutti abbiamo, ma che decenni di edonismo consumistico non ci hanno mai davvero chiesto di utilizzare. Non nella norma della maggior parte di noi, almeno. Tanto saremmo comunque atterrati sul morbido. Dobbiamo avere il coraggio di tuffarci in un racconto nuovo, che deve essere scritto e che non ha un autore solo o prestabilito. Nel nostro caso, poi, dobbiamo dare dimostrazione di fiducia a una classe politica che per anni e anni non se la è meritata, e per far questo ci vuole altro coraggio. Dopo questo, nulla sarà più come prima. Questo cambiamento così radicale spaventa. E allora eccoci stringerci sui balconi, intorno a un inno alle cui parole non crediamo (ma chi è pronto alla morte?), a disposizioni rassicuranti ma ancora insufficienti…
Cerchiamo di essere indulgenti, di avere sguardi bonari anche verso i comportamenti e le domande degli altri che non ci piacciono. In fondo abbiamo paura tutti. E ci viene richiesto il contrario. Coraggio. Da sempre, la specie evolve grazie alla capacità di adattarsi ai cambiamenti.
Ci vediamo al bar, appena possibile.