Fascinazione, emulazione, ossessione. Sofia Coppola ha sempre avuto una naturale propensione a osservare il mondo giovanile del gentil sesso, con le sue contraddizioni e specialmente negli aspetti più estremi. Con Il giardino delle vergini suicide aveva già sviscerato quell’inquietudine, quel disagio, il disadattamento inguaribile dell’adolescenza americana. Era naturale che da un articolo di cronaca vera pubblicato su Vanity Fair nascesse questo Bling Ring, palesemente scaturito da quanto la sensibilità di Sofia sia stata colpita dalla storia. Bling Ring non è allo stesso livello del film con Kirsten Dunst, non ne possiede la genuina freschezza, ma di certo racchiude tutte le peculiarità di questa strana e discontinua cineasta, capace di autentiche perle da custodire gelosamente nel cuore di chi guarda, assimila, digerisce a poco a poco questi racconti mai leggeri, mai epiteliali, mai freddamente raccontati.
Un gruppo di liceali, con un amico complice, entrano nelle case dei vip, le respirano, le assaporano. Desiderano quella vita e ne prendono un pezzo. Abiti, gioielli, complementi d’arredo. Per poi indossarli, vantarsi con gli altri, fotografarsi e postare le immagini sui social network. E gli altri li invidiano, li ammirano, li adulano. Mai nessuno pensa di raccontare, denunciare. Mai nessuno dubita per un attimo che questo possa essere sbagliato. Del resto è facile: Paris Hilton comunica che sabato sera sarà a un dato party, il suo indirizzo è pubblico, le chiavi sono sotto lo zerbino.
Oltre allo stupore naturale che può suscirare una storia come questa, la regia solo apparentemente cronachistica di Sofia Coppola punta l’obbiettivo dritto sui vip dai quali questo desiderio di emulazione scaturisce. Più volte entriamo nella casa di Paris Hilton, per scoprire quanto il suo ego la porti all’autoreferenzialità più totale, con sue foto e gigantografie ovunque. Queste sono persone che vivono sotto i riflettori, continuamente esposte, e ci stanno così bene che non smettono di voler essere guardate anche quando sono in casa. Ecco che la scena in campo lungo, muta, solo con i rumori di fondo, mentre i nostri si intrufolano da Audrina Patrige, mostra la sua casa-acquario, completamente a vetri, stanza da letto compresa. Impossibile non restarne colpiti e scioccati. Come pure dalla quantità di contate che queste persone tengono nella propria abitazione.
Come sempre l’abilità di Sofia è anche nel cast: da Emma Watson alle prese con il personaggio più ambiguo e falso dell’intero film, alla quasi esordiente Katie Chang nel ruolo di Rebecca, la mente, l’ideatrice e anche vittima dell’intero sistema, completamente asservita alle sue stesse ossessioni. Emblematica e intensa la scena in cui, nella stanza di Lindsay Lohan, si spruzza addosso il suo profumo, quasi come fosse l’incenso nel rito sacro a una qualche divinità, che la purifica e la innalza, per un attimo, al livello di queste persone che non dovrebbero essere un modello per nessuno.
Sofia va fino in fondo, non cerca un lieto fine, una morale giustificatoria o rasserenante. Come fu per Un gioco da ragazze, esordio di Matteo Rovere, certamente non riuscito così, ma che si prese il divieto ai minori proprio per la medesima inquadratura finale, in cui la protagonista guarda in macchina compiaciuta di sé, non mostrando alcun pentimento. La ragione di tutto questo non è da ricercarsi nella noia. Troppo facile bollare in questo modo i figli di ricchi produttori. È un desiderio di appartenenza, di un apparire che si fonde e diventa tutt’uno con l’essere, tanto da perdere il contatto con i propri pensieri, i voleri, la percezione dell’altro che ci passa accanto. Come descritto in un magnifico e terribile romanzo italiano, Io non chiedo permesso di Marilù S. Manzini.
Perché non c’è alcun permesso da chiedere, tanto non ci sono neanche più regole da trasgredire.