Stia con noi. E potrebbe finire qui, non ci sarebbe molto altro da dire. La Disney ha fatto centro di nuovo, confezionando una copia conforme di uno dei suoi film d’animazione più amati, un’operazione commerciale che frutterà alla perfida multinazionale una immane quantità di denaro, tra incassi, merchandising, licensing, sfruttamenti home video, televisivi, streaming. Tutto vero, ma prima di farsi scoppiare una vena, brandendo falce, martello, libretto rosso, torce e forconi, si può provare a perdere qualche minuto per soffermarsi su alcuni interessanti aspetti di questo nuovo corso Disney.
Prima di tutto, è proprio vero che la Disney sta copiando se stessa? Sì, in parte, ma la realtà dei fatti è che sta realizzando versioni moderne di storie classiche che lei stessa ha contribuito a rendere immortali presso un pubblico immenso attraverso le decadi. Cenerentola sarebbe oggi l’eroina di milioni di donne senza il cartone animato? Probabilmente no, non si può provare empiricamente, ma l’impatto del media audiovisivo nel tramandare la tradizione delle fiabe è indubbio. In parole povere, forse senza i classici Disney la fiaba della buonanotte sarebbe una pratica desueta già da molto tempo. Non lo è diventata anche perché esistono i libri della Disney, ovviamente.
Si arriva a oggi, era dei social e degli smartphone, nonché della Pixar, della Dreamworks e dei Minions. Il cinema d’animazione è radicalmente cambiato, nonostante l’enorme successo di Frozen, costruito di fatto non su castelli di ghiaccio, ma su una canzone, come quelle che salvarono Disneyland dal distrutto negli anni Novanta, firmate in gran parte da quel genio che porta il nome di Alan Menken. Ma Frozen è stato un caso fortunato. Maleficent, Cinderella e The Jungle Book no. Sono frutto di una strategia che comprende in pieno la contemporaneità, unendo tecnologia, classicismo e marketing, scegliendo i registi giusti e soprattutto gli attori giusti, con un sapiente mix di grandi star e fenomeni televisivi, dal Richard Madden di Game of Thrones al Dan Stevens di Downton Abbey. Ma anche Cate Blanchett, Angelina Jolie, Kevin Kline, Emma Thompson, e via discorrendo.
Una formula vincente, portata alle estreme proprio ne La Bella e la Bestia, in cui il copia e incolla dal film animato è smaccatamente evidente, e proprio per questo ancora più affascinante come esercizio di stile. Bill Condon, regista che ha costruito una carriera sulla rivisitazione della realtà, questa volta ne crea una alternativa, l’apparentemente reale diventa fittizio, mentre l’originale disegnato si trasforma nel tangibile. Un processo affascinante e che è la chiave vincente del film. La favola resta tale, perché la realtà non esiste. Ed è per questo che la storia e le canzoni che la accompagnano emozionano oggi come nella versione animata. Tutto il resto è macchina Disney, quella che ti fa credere che una teiera, un orologio e un candelabro possano cantare e ballare, e che una orribile bestia possa far innamorare una dolce e bella fanciulla solo grazie alla sua gentilezza d’animo e alla sua gigantesca Billy. Questa è la fiaba, che funziona perché la realtà è quella dei forconi e delle torce per linciare il diverso e ristabilire l’ordine costituito.
La Bella e la Bestia è un film perfetto, nel senso che è stato costruito e proposto perché ha uno scopo da raggiungere, e alla fine non si fa neanche troppo caso al fatto che Emma Watson, come i suoi altri colleghi Potteriani, sia legnosa e non troppo talentuosa. Non importa, perché con quel vestito addosso fa sognare mamme e figlie ed è una fervente femminista con le tette. La Bestia naturalmente è quello che ogni uomo vorrebbe essere, e non sarà mai. Mentre la folla, quella sì, è proprio come è e sempre sarà.