La prima domanda sorge spontanea: avevamo davvero bisogno di Superman Returns? No, ovviamente, ma le leggi del marketing insegnano che sarebbe folle non sfruttare un franchise così redditizio come quello dell’Uomo d’Acciaio. Certo dopo la morte di Christopher Reeve, che come il George Reeves suo quasi omonimo predecessore una volta smessi i panni dell’invincibile eroe si è trovato a dover combattere la grande battaglia della vita, senza gli stessi vantaggi del suo personaggio, era difficile pensare a far indossare nuovamente la tuta di Kal El a qualcuno.
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Non a caso la lunghissima gestazione del film, i molti talenti prima coinvolti e poi allontanatisi (Kevin Smith, Tim Burton, Brett Ratner) e poi la decisione di dare in mano il progetto a Mr. X-men Bryan Singer, sono tutti sintomi di una sicurezza certamente poco supereroistica da parte dei vertici della Warner Bros.
I duecentoquaranta milioni di budget e il cast non proprio di richiamo hanno poi ulteriormente preoccupato gli executives della major, e il risultato davvero deludente, neanche duecento milioni di dollari al box office americano, hanno confermato i timori di molti analisti del settore.
Insomma, la grande operazione non ha funzionato
E anche se l’investimento si recupera grazie al mercato internazionale, al licensing sul merchandise, all’home video, comunque la vita cinematografica futura di Superman sembra essere di nuovo precocemente a rischio, nonostante lo stesso Singer abbia già dichiarato che si sta pensando al prossimo film.
Ma tralasciando le questioni meramente economiche, che dobbiamo sempre tenere bene a mente semplicemente perché il cinema è un’industria e senza investimenti non si possono creare prodotti, il segreto del mancato successo di Superman Returns è da ricercare anche nei fattori artistici.
Singer, regista raffinato e profondo conoscitore dell’universo fumettistico, è riuscito a inserire la storia del ritorno di Superman sulla Terra come un ideale seguito a ciò che già conosciamo bene, aggiungendovi tutta una serie di elementi da apprezzare nel suo cinema.
Superman viene visto come un Dio che si sacrifica per l’umanità, come il Messia di cui necessita una razza ormai a corto di certezze e d’identità. Tutto l’apparato cristologico del film è qualcosa che abbiamo già visto, capovolto in Public Access, I soliti sospetti e nel sottovalutato L’allievo, in cui i protagonisti erano figure che rappresentavano il Male e il suo fascino perverso, mentre nei primi due episodi della saga di X-men quest’elemento è sempre presente con accezioni profondamente positive.
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Ma sebbene tutto questo possa sembrare scontato e quasi banale parlando di un eroe come Superman, non lo sono le emozioni che da questo ritrovato kriptoniano scaturiscono. Il Dio si avvicina agli uomini perché pieno di difetti: è geloso, non sopporta l’idea di essere stato sostituito da un piccolo umano che si è preso la sua donna, si rende ancora più indispensabile perché le sue certezze crollano una dietro l’altra. Il mondo ha davvero bisogno di Superman?
No, il mondo non ha bisogno di lui, o meglio, il mondo non ha più dei veri uomini d’acciaio. Non ci sono più Gandhi né Einstein, Chaplin o Martin Luther King, Leonardo e Michelangelo, o tanti altri personaggi che hanno dimostrato nel corso dei secoli la grandezza di questi buffi esseri che popolano la terza pietra dal sole di questo sistema, granello di polvere nell’universo.
Sarebbe inutile analizzare a fondo Superman Returns
Dei suoi pregi, non molti ma fondamentali, da un grande Kevin Spacey nei panni d Lex Luthor all’iconografia generale del film. E dei suoi difetti, a partire dai molti tempi morti, per tacere del protagonista. Ma questo film ci riporta la grandezza di un eroe, dandogli in alcuni punti l’afflato mitico che solo Frank Miller era riuscito a restituirgli nell’ultima struggente parte de Il ritorno del Cavaliere Oscuro, ricordandoci che Superman trae la sua enorme forza dal Sole. E che lo stesso vale anche per noi semplici esseri umani. Una considerazione che dovrebbe farci riflettere.