Difficile analizzare La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Lo Zibaldone frammentario che ha portato sullo schermo è talmente poco plasmato che sfugge alle definizioni, e in molti avranno visto un’autorialità in questo. Inizieremo quindi con l’affermare che se uno script così lo avesse scritto un qualunque altro regista italiano con soli sei film all’attivo, sarebbe stato come minimo accusato di essere “televisivo” o pretenzioso. Ma qui è di Sorrentino che stiamo parlando, e la reputazione conta. La reputazione dà potere, quello di realizzare un film che il pubblico può odiare. Tanto sei selezionato per la quinta volta al Festival di Cannes e la critica ti osanna perché sei Paolo Sorrentino. Alla cieca, come denunciato dai Cahiers Du Cinema (loro forse un po’ troppo protezionisti verso il cinema francese). E chi scrive proprio non capisce la necessità di mettere lo spettatore a dura prova di resistenza durante la visione.
Non è un film che si può bocciare a cuor leggero, La grande bellezza. Perché al suo interno ce n’è tanta, e Sorrentino è davvero una delle nostre glorie nazionali. Diversi momenti buoni, intuizioni registiche, prove attoriali esaltate dalla macchina da presa. Ma cinque o sei momenti buoni non fanno un buon film. Non lo hanno mai fatto. Ecco che allora, quando sembra che la pellicola stia per decollare, per diventare un film di Sorrentino, ricade inesorabilmente nel clamoroso errore che è: quello di guardarsi indietro, di voler rifare due mostri sacri come Federico Fellini ed Ettore Scola, invece di continuare sulla propria linea autoriale. Un autore Sorrentino lo è, e come abbiamo più volte affermato, è uno dei pochissimi in grado di regalare a un film italiano un respiro internazionale. Questa volta no. Questa volta è chiuso dentro confini che nemmeno conosce (è Roma, non Napoli, e il regista non l’afferra, non la comprende. Come dice lui stesso le radici sono importanti) e ci si è trincerato volontariamente per ripercorrere un cinema che è stato grande, ma che non sarà mai troppo tardi quando ci metteremo in testa che è passato, morto e sepolto, e irripetibile. Il cinema è arte, e come tale deve progredire. Quello italiano si piange addosso, e non si stacca da Fellini, dal Neorealismo e da altri grandi incontestabili, tende a ripetere invece che a innovarsi. Sorrentino ci provava, e ci riusciva. E adesso viene solo da chiedersi “Perché?”.
Accanto ad attori ottimi come il “solito” Toni Servillo e Galatea Ranzi si affiancano una schiera di volti ripescati come in un brutto reality show, e piccoli visi nuovi messi lì come in un cinepanettone, da direttori di casting che devono far favori ad amici inserendo figli di questo o quello per pochi secondi, stelline di quart’ordine buttate lì a far colore, che poi si vanteranno nelle discoteche romane di aver fatto un film con Sorrentino. E questo a un Brizzi, per nominarne uno, la critica non lo perdonerebbe mai. A Sorrentino sì. Perché la reputazione che si è guadagnato glielo permette.
Su tutti si stagliano le vere sorprese: Carlo Verdone intensissimo, con la sua battuta “Roma mi ha molto deluso” pronunciata con grave sincerità, e la sempre più bella Sabrina Ferilli, brava come mai è stata prima, una prova sincera di attrice che finalmente riesce a dare tutta se stessa e un talento mai urlato, finalmente convogliato in un ruolo difficile quanto, purtroppo, buttato via dalla sceneggiatura che lo getta letteralmente a mare.
Facile parlare di bellezza mostrando Roma, quanto dire che il miele è dolce. Ma il napoletano Paolo la dipinge con gli ori dei tempi che furono, e anche qui ne restituisce un’immagine mortifera, volgarmente decadente, annoiata e patetica, attraversata continuamente da suore e prelati. Un cliché asfittico che nemmeno uno statunitense poteva rendere più scontato e fastidioso di così, una città che odora di decomposizione a ogni fotogramma, il contrario di ciò che è, pur nella sua impossibilità di essere a misura d’uomo, la capitale. Città eterna sì, ma non eternamente uguale a se stessa, ai suoi palazzi, alle terrazze e alle vedute. E non tutti sono in grado, come Fellini, di rendere l’idea del circo che è: con nudi gratuiti su culi molli di attrici che ostentano di essere ancora “piacenti”, nani, ballerine e animali da pista bisogna saperci lavorare per non apparire ridicoli. E moltiplicare i finali non aiuta.
Un bel personaggio Jep Gambardella, ma se non sembra Marcello Rubini che chiacchiera su La Terrazza di Scola è solo grazie a Servillo, lui sì in grado di fornire spunti di riflessione che generano autentiche ansie in chi guarda. Perché il rischio che la mondanità nutrita dalla pseudocultura ci trasformi tutti come quei personaggi lì, un giorno, esiste. Almeno, per chi oggi può ancora permettersi di essere mondano.