Vivere con un’addiction è come vivere in schiavitù. Era da poco iniziata la Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia lo scorso settembre, quando tutta la critica presente al Lido si recò a vedere Shame, secondo film di Steve McQueen che vedeva ancora protagonista assoluto Michael Fassbender.
Il bello di questo mestiere è soprattutto che (a meno di non essere uno di quei folli che divorano l’intero catalogo il primo giorno) ai festival ci si approccia a un film senza saperne nulla, armati solo della propria cultura sul regista, gli attori o qualche altro aspetto della produzione. Le anteprime mondiali sono quanto di più eccitante possa esistere.
Non sapevamo, quindi, che quello che stavamo per vedere era uno dei film più belli degli ultimi anni, uno dei più sensibili, interpretato da un attore che una volta di più dimostrava il suo enorme talento.
V per Vergogna
Brandon Sullivan è un uomo di successo. Guadagna bene, abita in una bell’appartamento a New York, è di bell’aspetto. Eppure conduce una vita molto riservata.
Nella sua interpretazione di quest’uomo sofferente per la sua satiriasi, Michael Fassbender non risparmia nulla, nessuno dei sintomi, dalla depressione alla scarsa stima di sé, dai comportamenti compulsivi alla temporanea apatia, dal desiderio compulsivo a quello di auto-punirsi. Nel 1886 il dottor Richard von Krafft-Ebing pubblicò uno studio clinico forense dal titolo Psychopathia sexualis. Passato alla storia come il primo trattato scientifico a classificare l’omosessualità come una malattia mentale curabile (il dottore e ricercatore proseguì poi gli studi e ritrattò, dichiarando per primo che l’omosessualità è condizione umana naturale presente nell’individuo sin dalla nascita), Krafft-Ebing dedicò parte del suo saggio anche alla satiriasi.
Sono trascorsi centoventisei anni, oggi il termine non viene più utilizzato dai medici, che preferiscono parlare di ipersessualità o dipendenza da sesso, ma il concetto non è cambiato. Soprattutto, ieri come oggi, chi soffre di questa dipendenza non potrebbe mai parlarne in pubblico. La sex addiction è qualcosa che serve a condire barzellette, o a far versare inchiostro su riviste di gossip per qualche giorno, e nulla più. Ma come deve essere davvero la vita quotidiana di un ipersessuale, la vergogna, il disagio continuo che devo provare ogni singolo giorno della sua vita, non lo sapevamo. Finché non ce lo ha raccontato Mc- Queen.
Michael il grande
A proposito di barzellette, Michael Fassbender è stato il tormentone della Mostra. Un full frontal femminile sarebbe passato molto più in sordina, ma di quello maschile – è già accaduto in passato – si ride e si fa gossip. Ma noi di The Cinema Show sappiamo che Fassbender è un attore grandioso sin da quando lo vedemmo in Hunger, primo film di McQueen (e sarà anche nel terzo, Twelve Years a Slave, insieme a Brad Pitt, a confermare il loro fruttuoso sodalizio).
E ammettiamolo pure: non è affatto facile andarsene in giro con le pubenda esposte, masturbarsi e mingere davanti a una troupe, sapendo che le tue parti intime saranno proiettate su uno schermo gigante in tutto il mondo. Ma McQueen a questo attore ha già chiesto e ottenuto di fare un enorme lavoro sul proprio corpo: il suo Bobby Sands è un personaggio indelebile. E il sorridente Michael confessa di cercare proprio ruoli che lo facciano sentire a disagio, per superare se stesso.
Ecco che il suo Sullivan è un tormentato, un uomo solo, che associa il sesso a qualcosa di inevitabilmente sporco e istintualmente compulsivo, che per questo quando è davvero interessato a una donna non può e non riesce a toccarla. L’apice dell’interpretazione di Fassbender si raggiunge durante la discussa scena del sesso di gruppo, la scena della resa al proprio destino, quando il suo viso sembra raccogliere tutto il dolore della terra e convogliarlo nell’urgenza inevitabile, incatenante di compiere un atto.
Michael Fassbender è stato un bastardo per Tarantino, Magneto per gli X-Men, Rochester per la nuova, discutibile versione di Jane Eyre. È stato Carl Jung per Cronenberg e sarà in Prometheus. Ma i ruoli che gli scrive Steve McQueen sono quelli che portano quest’attore alle vette interpretative più elevate.
Una questione di rapporti
Brandon ha una sorella, Sissy, che è incasinata quanto e più di lui. Dolorose ferite del passato infettano anche il loro presente, ma il trauma che li ha segnati, che li ha resi quello che sono ora, non viene mai esposto, descritto, nemmeno nominato. C’è, esiste, è lì e incombe. Interpretata da Carey Mulligan, Sissy è una ragazza allo sbando, che anziché migliorare l’esistenza di Brandon, getta ancora più scompiglio in casa sua.
Carey Mulligan è uno dei volti rivelazione dell’ultimo anno
E come il collega Fassbender, cerca ruoli che la portino in una zona grigia e poco confortevole, che la spingano a mettersi in gioco sempre più. Nelle parole dell’attrice, Sissy è “un personaggio senza rete di salvataggio”, il suo disagio si esprime nel caos, mentre quello di Brandon è represso in un ordine ossessivo, in ritmi regolati compulsivamente e metodicamente, studiati per mantenere una facciata di normalità.
McQueen è un regista sensibile dal tocco personalissimo. Inquadra i due fratelli che parlano quasi sempre di spalle, con i volti di tre quarti, riscalda la fotografia degli interni quando c’è anche Sissy, la desatura quando Brandon è da solo, a sottolineare il suo stato d’animo continuo e ossessivo. È una questione di rapporti, quelli visivi tra la macchina da presa e i personaggi, tra la composizione e la punteggiatura cinematografica, e quelli tra i personaggi, soprattutto i principali. Due anime in pena che si demoliscono e si fanno forza a vicenda, in un’altalena di dipendenza e distruzione, in un continuo presentarsi il conto.
Shame è un film prezioso
Rcchissimo di spunti di riflessione nella trama e ottimamente realizzato nelle componenti cinematografiche. Sotto qualunque punto di vista si preferisca guardarlo, è un film enorme. E adesso che si faccia pure della facile ironia.