Che Tim Burton sia un citazionista, un amante dei film di genere e un outsider che mai smetterà di esserlo, è fuor di dubbio. Che abbia saputo costruire un suo linguaggio, una peculiarità di visione, anche. E ogni volta che si muove a passo uno con un soggetto tutto suo, raggiunge vette altissime. Frankenweenie, cortometraggio di venticinque minuti girato quando Tim aveva venticinque anni e lavorava per la Disney, sarebbe dovuto essere quel che vediamo oggi. Un lungo a passo uno, realizzato con un bianco e nero equilibrato ed elegante, e con uno script poetico che tocca con la consueta leggiadria burtoniana temi delicatissimi, senza cercare di spiegarli, bensì proponendo spunti di riflessione.
Il cagnolino Sparky, un bull terrier che ricorre nelle fantasie di Burton, è il fedele compagno di giochi di Victor Frankenstein. Muore in un incidente, e la lacerante scena è fuori quadro, come nel film originale. E qui, come allora, persistono la delicatezza, quell’aria come di sogno, quella fissità dell’ambiente che galleggia, come sospeso in un presente senza tempo né direzione. Una bolla di perbenismo, come Burbank, è New Holland, la cittadina dove tutte le siepi sono ben squadrate e le casette allineate una dopo l’altra. Era difficilissimo trasporre quel gioiellino di corto in un lungo animato di oggi, che potesse competere persino con la Disney e la Pixar agli Oscar, ma l’animo di Burton ce l’ha fatta. Non solo questo nuovo Frankenweenie mantiene la tenerezza di allora, ma nel passaggio dal live action all’animazione le visioni dell’autore prendono una forma che è sempre più sua, sempre più cifra stilistica, ma mai fissità, in una continua evoluzione di un discorso comunque coerente.
Il suo nuovo Victor, scienziato in erba che grazie a tuoni, fulmini e saette riporta in vita il suo cane, non è più uno “strano” incompreso. New Holland è popolata di ragazzini strambi, di nerd che vogliono riuscire nelle scienze, di cupe vicine di casa dallo sguardo basso e la voce soffusa, di gatti che prevedono il futuro lasciando “messaggi” nella lettiera, di compagne di scuola dallo sguardo fisso che enunciano profezie. E accanto a loro si muovono indifferenti gli adulti, per lo più ottusi e archetipici, ma altrettanto strambi. Come già in Dark Shadows, Burton non li vede più come una massa informe che semplicemente non capirà mai l’eroe della storia, ma posa la sua mano carezzevole e li tratteggia con uno sguardo bonario, più comprensivo e volto all’accettazione, prendendoli amorevolmente in giro nelle loro stranezze. Salvo poi lasciare che il professore di scienze (doppiato in originale da Martin Landau) pronunci un discorso spietato che suona tanto come il pensiero del regista stesso, trascrizione più completa e senza filtri di ciò che sosteneva il Pinguino in Batman il ritorno.
Frankenweenie è un film che fa scaturire emozioni forti, infarcito delle più profonde sensazioni di Burton. Quel suo restare eternamente adolescente che per fortuna non è mai stato scalfito, quella sua infantile non-accettazione della morte che lo porta a rimettere in gioco i suoi personaggi ancora e ancora, piene di cuciture, predisposte alla rottura, e per questo fragili, ma tanto più vive di quanto non lo siano altre. La differenza con i primi film, ai quali questo solo apparentemente torna, è che oggi Tim Burton ha raggiunto una maturità, nella forma e nella narrazione, che davvero non ha precedenti nel suo cinema. La sua poesia è lasciata libera di scavare, di mettere a nudo il suo più profondo modo di essere, cosa che era accaduta solo con Big Fish. E l’animo di questo Autore, quando è scoperto, è paradossalmente più forte e inattaccabile di quando si protegge.
Intanto, da uomo umile qual è, continua a sostenere che il suo immenso talento sia solo il frutto di una serie di fortunate coincidenze. Ma noi, che non crediamo nel destino e giudichiamo solo il film che abbiamo visto, sappiamo che è l’opera che scaturisce da un vero artista, uno che è capace di guardare al mondo senza i limiti imposti dal labile confine tra realtà e fantasia.
Federica Aliano