Le caravelle albioniche solcano gli ultimi lembi del futuro Oceano Atlantico accompagnate dal suono anacronistico del preludio del Wagneriano Oro del Reno. Una sequenza magistrale, che si protrae per l’intera durata della partitura, chiedendo insistentemente, ad ogni incedere di ottoni, di venir definita per quello che è: Kubrickiana. Si apre così The New World, il quarto lungometraggio in carriera di Terrence Malick, con questa meravigliosa analogia audiovisiva – perché tanto quanto nella leggenda nibelunga le tre figlie del Reno cercano di custodire e proteggere l’oro che sarà materia per forgiare l’anello che controllerà il Mondo, così l’arrivo di quelle navi non può che simboleggiare invece la prossima perdita dell’innocenza di quelle coste non ancora battute dalla cupidigia occidentale, e da cui partirà un’intreccio amoroso che è anche metafora non troppo celata dei destini di quel Nuovo Continente.
È il 1607, quando un gruppo di coloni inglesi pianta le tende in quel territorio inesplorato della Virginia. Tra di loro c’è John Smith (Colin Farrell), che ci viene presentato come soldato di ventura poco incline alla disciplina, a cui viene chiesto di risalire il fiume alla ricerca di cibo per sfamare l’accampamento. Gli indigeni del luogo, con cui avrebbe dovuto intrattenere qualche proficuo baratto commerciale, lo catturano e stanno per linciarlo, quando interviene a salvarlo la giovane principessa Pocahontas (Q’orianka Kilcher, all’epoca quattordicenne), affascinata da quell’uomo proveniente da un mondo lontano. John Smith, come farebbe ogni adulto anche nei secoli successivi, sbarella di fronte alle attenzioni della teenager e dimentica ben presto la sua missione nell’idillio dell’accampamento indiano, tra bagni al fiume e corse tra i campi di grano. Quando fa ritorno al forte degli inglesi, Pocahontas lo insegue innamorata e Smith, sempre come ogni uomo dei tempi moderni, davanti all’impegno si dà alla fuga, accettando una missione da cartografo nei territori del Canada. Alla principessa indiana comunque il destino riserverà un marito inglese e una fama che la trasporterà fino alla corte dei reali britannici, in bilico tra l’integrazione totale e il fenomeno da baraccone da mettere in mostra.
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Alla sua uscita nelle sale venne definito un “Pocahontas per adulti”, visto il punto comune di partenza, la vita della nota principessa indiana già soggetto per un fortunato film d’animazione Disney. In verità, nelle mani di Malick, John Smith e Pocahontas diventano semplicemente i due poli attorno a cui tessere le sfumature dell’eterno conflitto umano natura/cultura.
The New World suscitò qualche indignazione
Per gli abbracci poco consoni tra Farrell e la minorenne Kilcher, costringendo addirittura Malick all’umiliazione autoriale di tornare sul set, per ordine della casa di produzione, e battere un secondo ciak più casto delle effusioni tra l’irlandese e l’indiana. Lui in compenso, da cineasta-poeta quale si è sempre dimostrato, anche qui dà ampio sfogo ai suoi trademarks: tempi di narrazione fortemente dilatati, paesaggi (e suoni) naturali, lunghi monologhi interiori dei protagonisti, anche se forse non tutto gira alla perfezione. The New World compie il tragitto tra le cabine di proiezione e la moviola diverse volte – esce una prima versione più lunga, poi ritirata dale sale in America, rieditata con quindici minuti di meno, anche se poi non è togliendo un quarto d’ora che un film di Terrence Malick improvvisamente prende lo slancio di un blockbuster commerciale. Alla fine, dello stesso film esisteranno tre edizioni, rispettivamente di centotrentacinque, centocinquanta e centosettantadue minuti, a simboleggiare forse un prodotto anomalo, i ripensamenti di entrambe le parti, il difficile rapporto non solo tra Natura e Cultura, ma anche tra Arte e Denaro.
Ma il ruolo di The New World in quella che è la seconda fase della carriera del regista texano è importantissimo
Questo è il film in cui torna a sporcarsi le mani, a cercare di ottenere quello che vuole, a litigare con i produttori e con le enormi difficoltà di far combaciare la visione nella propria mente e gli elementi esterni. Probabilmente è grazie alle difficoltà incontrate nel fare questo film che improvvisamente, passata la boa dei sessant’anni e fatti i conti con il proprio passato e l’autoesilio, Malick torna ad aver voglia di stare sul set, di tirar fuori i copioni dal cassetto, di confrontarsi con una giovane generazione di attori spesso non ancora nati quando lui debuttava con Badlands.
Paradossalmente sì, è forse il meno riuscito tra i quattro film finora consegnati da Malick nei suoi quasi quarant’anni di carriera, anche se comunque, difetti compresi, rimane una pagina altissima del cinema americano degli anni Duemila, e una svolta all’interno del compendio cinefilosofico che il professor Malick ha saputo centellinare sapientemente nel corso dei decenni, in un ciclo di opere che ha oggettivamente pochi eguali.