“Mettere i propri demoni davanti al carro della propria vita”, diceva Ingmar Bergman. Non è diverso per chiunque abbia una passione bruciante, un bisogno primario più forte della necessità di dormire e mangiare. Non cambia molto se i demoni diventano cavalli e ottani e il carro è una scatoletta senza alcuna sicurezza, ma con un bellissimo alettone posteriore. E qualche squallido, “volgare” sponsor sulle fiancate. Questo è ciò che ha mosso due (ma forse tutti) piloti di Formula 1 all’inizio degli anni ’70.
Rush: un duello ad alta velocità
James Hunt il bello e Niki Lauda il campione sfigurato. Tanti ricordi di bambina, un cugino più grande che mi trasmise la passione per quel rosso, Rosso Ferrari, che non conosce eguali. Un poster con Lauda che esce dall’inferno di fuoco che fu il suo incidente. L’ammirazione per un piccolo uomo, meticoloso come un ragioniere, ma in fondo anche lui abbastanza pazzo da risalire in macchina. Un eroe che rimette i piedi sui pedali e conclude un altro mondiale, fanculo il dolore. Roba che a una bambina cambia la vita, altro che principe azzurro.
Rush incarna tutto questo e molto di più. È strutturato come un film sul pugilato, ma ha la miglior regia di sempre in un film sulle corse automobilistiche. È un duello, una sfida testa a testa tra due uomini diversi per carattere, abitudini, tecnica. E soprattutto cuore, come in ogni film sportivo che si rispetti. Nemici e per questo migliori amici, come Lupin e Zenigata (e non a caso il ladro francese sfidò Lauda in una storica, indimenticabile puntata), l’uno imprescindibile dall’altro. Nello script di Peter Morgan tutti gli altri spariscono di fronte a questo duello. Persino il grande Andretti, campione del mondo nel ’78, che inanellava pole e vittorie, è ridotto a pallida comparsa. Poco importa, perché quella rivalità, gonfiata dai media, infuocava gli animi di noi spettatori di quello che fu uno spettacolo irripetibile. La sensualità inarrivabile di chi, ogni giorno, guarda in faccia la morte e se ne frega.
Ron Howard e la regia americana
Ron Howard dirige in modo adrenalico, solido, classico. Mescola i generi frame dopo frame, li amalgama tra loro. Western su pneumatici, commedia romantica, racconto di vita. Nulla commuove di più di un film sportivo, il melò per eccellenza. E con una regia così gli si perdona persino Il codice Da Vinci, giacché il vecchio Richie Cunningham è oggi uno dei migliori director su piazza, con buona pace di chi non sa riconoscere il Cinema Vero. Le riprese al fulmicotone sono supportate da un montaggio moderno, a volte azzardato, con contrastanti derive sul classicismo. Una mescolanza esaltata dalla sontuosa fotografia dell’esperto Anthony Dod Mantle, premio Oscar per The Millionaire.
Perfetta la scelta dei due protagonisti: Chris Hemsworth in parte come non mai e Daniel Brühl dalle doti mai come ora esplose.
Tutto vero? Quasi. Poco importa. Sono scelte di vita quelle fatte sulla pista, e rispecchiano il cuore di questi due artisti del volante. Ma nei loro sogni c’è comunque stata la bandiera a scacchi. Sempre.