Nel primo film della Before Trilogy, Jesse ci racconta che i suoi genitori sono divorziati, che lui ha una sorella e che la sua ragazza che studia arte lo ha lasciato. Lui diventerà uno scrittore raccontando una notte indimenticabile. Ecco, Boyhood parte da qui.
Non è un film girato in dodici anni, è una vita intera montata come un film di Godard, partendo dai giorni di un futuro passato. Apparenti farneticazioni, eppure oggi si può dare un senso all’opera di un cineasta che è stato spesso sottovalutato, compreso dal sottoscritto e probabilmente anche giustamente, che sembrava perdersi attraverso troppi discorsi, ma che invece stava seguendo un filo preciso che portava a questo. E che probabilmente non finisce qui.
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The Mason Show, dodici anni a guardare un bambino che cresce, non è però un voyeristico reality intellettuale, anche perché basta dare un’occhiata a Twitter per sapere che quello è X-Factor. Boyhood è il desiderio di ricomporre i pezzi di un puzzle di cui ognuno di noi fa parte. Partiamo dall’infanzia, di cui spesso abbiamo ricordi appena confusi, per vedere scorrere la nostra vita giorno dopo giorno, vedere e vederci invecchiare, cercando di capire quali sono i momenti che non dimenticheremo, che ci segneranno, che cambieranno il corso delle cose.
C’è bisogno di dire che Boyhood è un’opera straordinaria?
Sì, e anche di ribadirlo con forza, soprattutto di sottolineare che non stiamo parlando di un film, ma di un oggetto che gode di una propria identità e indipendenza. Come accadeva al Film Unico di Job, il produttore visionario del Signor Malaussene di Daniel Pennac. Quell’idea di cinema era destinata a un’unica proiezione. Di fatto è così anche per Boyhood, la cui essenza cambia nel tempo con noi, come cambiano i suoi protagonisti all’interno della storia.
Mason ormai è diventato Jesse, avrà già incontrato Celine e oggi, anche se entrambi volessero, non la può perdere. Ed è questa la vera malinconia: sapere che è sempre più difficile. Perdersi.